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Ue, arriva il caricabatterie unico per contrastare 51mila tonnellate di rifiuti elettronici

Comodo, pratico, ma soprattutto sostenibile. Il caricabatterie universale è realtà e verrà introdotto definitivamente nel 2024 su tutti i device: a decretarlo è stato il Parlamento Europeo, che a Strasburgo ha preso questa decisione epocale. Oltre a vantaggi per gli utenti, che potranno utilizzare un solo cavo, il pronunciamento punta a contrastare l’emergenza dovuta ai rifiuti elettronici, che sono una vera e propria piaga contemporanea.

Risparmi per gli utenti e cura per l’ambiente

In base alle stime effettuate, si ipotizza che i nuovi obblighi aiuteranno i consumatori a risparmiare fino a 250 milioni di euro l’anno sull’acquisto di caricabatterie inutili, liberando l’ambiente di circa 11mila tonnellate di rifiuti elettronici. Soddisfazione da parte della Sima, la Società italiana di medicina ambientale, che commenta così questa storica decisione: “I rifiuti elettronici sono la categoria di rifiuti che cresce più velocemente nell’Ue e ogni anno in Europa vengono prodotte circa 51mila tonnellate di rifiuti elettronici, 44,7 milioni di tonnellate nel mondo, con un impatto negativo sull’ambiente considerato che i dispositivi elettronici ed elettrici gettati contengono materiali potenzialmente nocivi che generano inquinamento e aumentano i rischi per le persone addette allo smaltimento”, spiega il presidente, Alessandro Miani. In Italia si stima che ogni cittadino produca circa 16,6 kg di rifiuti elettronici all’anno, ma raramente si esegue un corretto smaltimento di tali prodotti: nel nostro Paese solo il 32,1% dei rifiuti elettronici viene riciclato, contro una media Ue di circa il 40%. “Sul tema sono stati fatti enormi passi avanti, col numero di caricabatterie elettronici passato dai 30 modelli diversi del 2009 alle 3 tipologie standard attualmente in commercio – spiega Miani, come riporta Adnkrronos-. L’introduzione di un caricatore universale, quindi, avrà innegabili vantaggi sul piano ambientale, perché permetterà di abbattere le quantità di rifiuti elettronici prodotte ogni anno da cittadini che utilizzano smartphone, tablet e altri apparecchi”.

Cosa accade dal 2024

Sul piano pratico, invece, cosa accade nelle nostre case e nei nostri uffici? Entro la fine del 2024, tutti i telefoni cellulari, i tablet e le fotocamere in vendita nell’Unione Europea dovranno essere dotati di una porta di ricarica Usb-c. Dalla primavera 2026, l’obbligo si estenderà ai computer portatili. Il Parlamento a Strasburgo si è espresso in modo compatto, con un totale di 602 sì, 13 no, 8 astenuti. Indipendentemente dal produttore, tutti i nuovi telefoni cellulari, tablet, fotocamere digitali, auricolari e cuffie, console per videogiochi portatili e altoparlanti portatili, e-reader, tastiere, mouse, sistemi di navigazione portatili, cuffiette e laptop ricaricabili via cavo, che operano con una potenza fino a 100 Watt, dovranno essere dotati di una porta USB-C.

Password addio, ecco a cosa stanno lavorando i big tecnologici 

Lo sappiamo tutti benissimo: negli ultimi anni, è cresciuto esponenzialmente il numero di password che ognuno di noi deve ricordare. Per dare qualche dato spicciolo: i dipendenti delle piccole e medie imprese utilizzano fino a 85 password, evidenzia un rapporto di Lastpass, mentre quelli delle grandi aziende ne utilizzano in media 25. In ogni caso, si tratta di un numero impressionante di codici da fissare nella propria memoria. E’ questa una delle principali ragioni per cui i big tecnologici come Apple e Google stanno cercando di sviluppare soluzioni così che gli utenti non debbano ricordare tutte queste credenziali e allo stesso tempo mantenere alti i livelli di sicurezza. 

Le password come le conosciamo oggi scompariranno davvero?

Con il suo ultimo sistema operativo per iPhone, Apple ha rilasciato nuove chiavi di accesso. O, nelle parole dell’azienda, “una sostituzione della password”. “Sono più veloci nell’accedere, più facili da usare e molto più sicure”, afferma Apple. Questo nuovo sistema consente all’utente di accedere a qualsiasi applicazione o servizio tramite Face ID o Touch ID, i sistemi di riconoscimento facciale e di identificazione delle impronte digitali di Apple. Cioè, senza inserire manualmente alcuna password. Tra i vantaggi di queste keys, l’azienda della Mela sottolinea che sono più efficaci contro il phishing (una tecnica per ottenere i dati anagrafici e bancari di un utente fingendo di essere un’azienda o un’istituzione nota). Questa novità ci impedirebbe di inserire le nostre credenziali in siti fraudolenti pronti a rubarle, poiché l’identificazione come utenti è gestita in modo crittografato point-to-point il nostro dispositivo e il servizio online a cui si vuole accedere .

Come funzionano le chiavi di accesso Apple?

Quando l’utente crea una di queste chiavi di accesso, il sistema operativo genera una coppia di chiavi crittografiche univoche da associare a un’applicazione o all’account di un sito Web. Garrett Davidson, un ingegnere del team di autenticazione dell’azienda, spiega che una di queste chiavi è pubblica e archiviata sui server Apple, mentre l’altra è segreta e rimane sempre sul tuo dispositivo. “Il server non apprende mai qual è la tua chiave privata e i tuoi dispositivi la mantengono al sicuro”, afferma.
Questi sistemi alternativi alla password sono crittografati e sincronizzati su tutti i tuoi dispositivi Apple utilizzando iCloud. Se viene usato un dispositivo non compatibile con questo sistema di archiviazione, viene generato un codice QR che deve essere scansionato con l’iPhone. Però non tutte le app, a oggi, supportano questa modalità.

Gli eventuali limiti

Di fronte al potenziale delle chiavi di accesso di Apple per porre fine ad alcuni problemi di sicurezza delle password, è ancora presto per valutarne i possibili limiti. Ad esempio, uno dei problemi inerenti ai sistemi di autenticazione che utilizzano l’identificazione biometrica è che non può essere modificata. Ancora, i sistemi biometrici non sono infallibili. Il futuro delle password tradizionali, però, sembra tracciato. La loro fine, pare, si avvicina: resta da sapere quando.

Nel 2022 le piccole cose di tutti i giorni fanno la felicità

Cresce l’importanza della cura di sé come priorità e non come vanità, si dà più valore al quotidiano nella sua autenticità, e aumenta l’attenzione alla sostenibilità delle nostre azioni. Segni di un importante cambiamento culturale in atto che tutti possiamo cogliere, e che sono stati intercettati anche dal rapporto europeo realizzato da Ketchum Research and Analytics per Lenor. La ricerca ha voluto indagare ciò che in questo anno conta veramente per i cittadini europei. Ma nel nostro Paese l’indagine ha rilevato che dopo la pandemia il 30% degli italiani ha dovuto fare i conti con umore basso e sensazione di tristezza, e ha sentito la mancanza di almeno un ‘grande momento’, come vacanze, matrimoni, fidanzamenti, feste di laurea.

Prendersi cura di sé almeno una volta al giorno 

Allo stesso tempo, però, il 63% degli intervistati si è reso conto che in assenza di questi ‘grandi momenti’, sono state proprio le piccole cose di tutti i giorni a farli sentire felici, e il 76% concorda nell’affermare che dal periodo della pandemia apprezza i ‘momenti più piccoli’ tanto quanto quelli più grandi. In particolare, tra le piccole cose quotidiane più amate, spiccano i gesti per sé stessi. Il 97% degli italiani afferma infatti che ha bisogno di dedicare almeno un momento al giorno a prendersi cura di sé, e sentirsi riposato e in forma in modo da poter affrontare i propri impegni. Non solo: la ricerca ha evidenziato che il 59% degli italiani preferisce spendere tempo e risorse per migliorare il proprio benessere fisico e mentale (ad esempio, facendo meditazione o esercizio per mantenersi in buona salute), contro un 41% che si concentra solo sull’aspetto fisico (ad esempio, andando regolarmente dal parrucchiere, comprando nuovi vestiti, concedendosi trattamenti estetici).

Meglio il proprio letto che quello di un hotel

Il 68% degli intervistati, inoltre, sceglie di sentirsi bene mentalmente ritagliandosi del tempo per sé, e oltre la metà afferma che preferirebbe infilarsi tra le lenzuola appena lavate del proprio letto piuttosto che passare una notte in hotel. E se il 78% degli italiani oggi si sta concentrando maggiormente sulla cura di sé rispetto a 5 anni fa, la maggior parte afferma di essere anche più attento all’ambiente rispetto a 2 anni fa, facendo più attenzione a riciclare (94%) e prendendo sempre o regolarmente decisioni eco-sostenibili (66%), riporta Ansa.

“Un cambiamento fondamentale nella nostra quotidianità”

“Questo rapporto mostra che durante questi anni di pandemia c’è stato un cambiamento fondamentale nel modo in cui cerchiamo di migliorare la nostra quotidianità, poiché ci siamo resi conto che sono le piccole cose a essere le più importanti e quelle con il maggior impatto sul nostro benessere – commenta Alessandro Castronovo, Senior Director P&G per l’Italia -. Non c’è più necessariamente il bisogno di ‘grandi gesti’ o ‘grandi momenti’. Questa ricerca mostra quanto sia importante cercare di vivere momenti di benessere anche piccoli, ma ogni giorno”.

Digital Quality Life, Italia è il 19° paese al mondo per benessere digitale 

Sempre meglio, ma si può fare ancora di più. Ecco, in sintesi, la valutazione complessiva del nostro paese all’interno del Digital Quality of Life Index 2022, analisi (con relativa classifica) di Surfshark, società che sviluppa strumenti per la protezione della privacy, che fa il punto sullo stato del benessere digitale dei singoli paesi. In sintesi, l’Italia si colloca alla 19a posizione (su un totale di 117 paesi e 7,2 miliardi di individui, ovvero il 92% della popolazione mondiale) in termini di benessere digitale, migliorando di ben 8 posizioni rispetto la rilevazione precedente. Bene, dunque, ma ci sono ulteriori margini di miglioramento.

Gli indicatori cardine 

Sono cinque i parametri principali analizzati nella ricerca, con 14 indicatori chiave: qualità di Internet, e-government, e-infrastrutture, accessibilità a Internet e e-security. Lo studio si basa sulle informazioni open-source delle Nazioni Unite, della Banca Mondiale, di Freedom House, dell’Unione Internazionale delle Comunicazioni e di altre fonti, riferisce Agi. In particolare, il rapporto esplora la “qualità della vita digitale per vedere come le diverse nazioni riescono a fornire le necessità digitali di base ai loro cittadini. Soprattutto, la nostra ricerca cerca di mostrare il quadro completo del divario digitale globale di cui soffrono milioni di persone” ha spiegato Gabriele Racaityte-Krasauske, responsabile PR di Surfshark.

Ni all’efficienza della rete, sì alla convenienza

Per quanto riguarda i vari punteggi, il risultato peggiore dell’Italia è riferito alla qualità di Internet (42° posto a livello globale. L’Italia deve migliorare del 50% per eguagliare il risultato del Cile, che occupa la posizione migliore), mentre il migliore è quello dell’accessibilità a Internet (12° posto). I servizi di e-security sono al 17° posto, mentre le infrastrutture e l’e-government sono rispettivamente al 23° e al 26° posto. Però, anche il livello può apparire basso, la qualità di Internet dell’Italia, considerando la velocità, la stabilità e la crescita, è migliore del 10% rispetto alla media globale.Bene anche per quanto riguarda la velocità: la rete fissa a banda larga italiana colloca il Paese al di sopra di quella mobile nella classifica globale, con una velocità di 108,5 Mbps/s (39° posto a livello mondiale). Notizia incoraggianti anche per la rete mobile, che dall’anno scorso è migliorata in velocità dell 18,4% (8,7 Mbps). L’Internet più veloce del mondo? E’ quello di Singapore, con velocità mobili fino a 104 Mbps/s e fisse fino a 261 Mbps/s. Siamo invece in ottima posizione per quanto concerne la convenienza, ovvero l’accessibilità della rete: i nostri connazionali possono acquistare 1 GB di Internet mobile in Italia con 20 secondi di lavoro al mese, il 48% in meno rispetto alla Spagna. 

La chat preferita dagli italiani? È WhatsApp, ed è usata da 35 milioni di utenti 

WhatsApp è in assoluto l’applicazione di messaggistica preferita dagli utenti italiani, tanto che a giugno ha toccato un picco di circa 35 milioni di utilizzatori. Dopo WhatsApp, si piazza Messenger, sempre del gruppo Meta, seguita da Telegram, ma si fa avanti Discord, nata per il mondo dei giochi. È quanto ha rilevato l’analisi dell’esperto di social media Vincenzo Cosenza, basata sulle rilevazioni di Audiweb powered by Nielsen. Secondo l’analisi, WhatsApp, che di recente ha aggiunto funzionalità di privacy, in media nei primi mesi di quest’anno è stata usata per 10 ore e 50 minuti a persona al mese, con una punta di 11 ore e 29 minuti a gennaio. Rispetto ai corrispondenti mesi dell’anno precedente, rileva l’esperto, si registra un calo ‘irrisorio’ di utilizzo, pari all’1,4%, mentre guardando più indietro nel tempo si può apprezzare la sua crescita: nel 2019 la media di utenti era infatti di 31,8 milioni.

Messenger perde 4,5 milioni di utenti, Telegram ne conquista 15,5 milioni

Riguardo Messenger, sono stati circa 17,3 milioni gli utilizzatori medi nel primo scorcio del 2022. Ma il calo rispetto all’anno precedente, a differenza di WhatsApp, è stato del 21%, ovvero pari a 4,5 milioni di persone in meno. Segno, questo, “di una difficoltà dell’app di Zuckerberg di trovare una sua collocazione rispetto alla sorella acquisita WhatsApp”, spiega Vincenzo Cosenza.
Telegram invece conquista 15,5 milioni di italiani, ma nonostante la crescita “si nota un calo del 7% rispetto ai primi sei mesi del 2021”, aggiunge l’esperto. Il tempo di utilizzo medio di Telegram rimane però elevato: in media nel 2022 le persone usano la chat per 2 ore e 9 minuti al mese, il 16% in più rispetto all’anno precedente.

Discord cresce del 29% rispetto al 2021

Quanto a Discord, gli italiani che l’hanno usata nel 2022 sono stati 1,9 milioni, in crescita del 29% rispetto all’anno precedente. Il tempo medio trascorso in questo caso è di circa 1 ora e 20 minuti a persona al mese. Tutte le altre chat di nicchia, si legge nell’analisi, hanno subìto un calo consistente rispetto all’anno della pandemia. Skype, ad esempio, rimane con uno zoccolo duro di 3,1 milioni di utenti mensili, ma scende del -14% rispetto al 2021, con un tempo d’utilizzo di 27 minuti pari a -40%.

Ma ci sono anche Google Chats, Google Meet, Kik e Signal

L’analisi prosegue con i ‘risultati’ ottenuti da Google Hangouts, ora diventata Google Chats, e Google Meet, che insieme raggiungono 1,8 milioni di persone, in calo del -52%. Un’app che resiste sul mercato dal 2010 è però Kik, che nel nostro paese è ancora usata da 1,1 milioni di utenti, ma anch’essa in calo del -16%.
Seguono l’app più attenta alla sicurezza, Signal, con poco più di 500.000 utenti (-48%) e un tempo di utilizzo medio mensile di circa 1 ora.

Gli utenti di iPhone e Android trascorrono almeno 4 ore al giorno sulle app

Gli utenti di iOS e Android trascorrono in media più di quattro ore al giorno sulle app del proprio smartphone o tablet. Lo rivela un nuovo report firmato dalla società di analisi Data.ai (ex App Annie), che prende in considerazione 13 mercati internazionali, ovvero Indonesia, Singapore, Brasile, Messico, Australia, India, Giappone, Corea del Sud, Canada, Russia, Turchia, Stati Uniti e Regno Unito. La quantità di tempo trascorso davanti allo schermo dei device smart è diminuita però non così sensibilmente rispetto al 2020, e il dato sorprende se si considera che allora i cittadini di tutto il mondo erano bloccati in casa per il lockdown, quindi, con molto più tempo libero a disposizione.

Indonesia, Singapore e Brasile superano in media le 5 ore al giorno

Sembra che la pandemia, del resto, abbia in qualche modo modificato le abitudini dei consumatori. Chi ha iniziato a usare di più le app durante l’isolamento ha mantenuto infatti le sue abitudini nonostante il ritorno alla ‘normalità’.  Secondo il report di Data.ai, ad esempio, nel 2020 la media per utente di utilizzo di app a Singapore era di 4,1 ore, mentre ora è salita a 5,7, e l’Australia è passata da 3,6 ore a 4,9. In entrambi i paesi la crescita è risultata del 40%. Un trend che d’altronde si riflette in molti altri paesi, come l’Indonesia (+10%), l’India (+5%), il Giappone (+5%), il Canada (+20%), la Russia (+10%), gli USA (+5%), il regno Unito (+5%), la Cina (+5%) e la Germania (+10%).

Instagram la più scaricata, TikTok la più utilizzata 

Instagram è stata la app in assoluto più scaricata nel secondo trimestre del 2022, mentre TikTok è stata quella utilizzata più a lungo. Facebook è ancora l’app con più utenti attivi al mese, sopra a WhatsApp, Instagram, Messenger, TikTok, Telegram, Amazon, Twitter, Spotify e Netflix. Tra i videogiochi, Pokémon Go ha segnato un vistoso aumento di utenti grazie alla nuova stagione, iniziata il primo giugno di quest’anno, riporta Adnkronos.

L’apice raggiunto nel corso del secondo trimestre del 2020

Il tempo medio di utilizzo delle app mobili ha raggiunto l’apice nel corso del secondo trimestre del 2020 a causa della pandemia, si legge su AppAndroid, ma sembra che in alcuni paesi molte persone abbiano mantenuto le abitudini acquisite durante i vari lockdown. Il tempo medio trascorso utilizzando varie applicazioni mobili non solo non è diminuito dopo la normalizzazione della situazione sanitaria, ma ha continuato a crescere.

Cybersecurity: quanto costa alle aziende ogni dato “rubato”?

In Italia ogni singolo dato rubato alle imprese costa in media 143 euro, mentre a livello globale si sale a 164 dollari. L’industria farmaceutica è quella che ci rimette di più: 182 euro, nel settore tecnologico si scende a 174 euro e nei servizi finanziari a 173 euro. Considerando l’intensità e la frequenza degli attacchi, il conto però lievita. Secondo il report Cost of a Data Breach di Ibm, in Italia il danno medio è di 3,4 milioni di euro, +13% rispetto al 2020, e a livello globale la cifra arriva a 4,35 milioni di dollari. Il livello più alto degli ultimi cinque anni. Considerando che non si parla di spiccioli, a rimetterci sono anche i consumatori, sui quali le aziende scaricano in parte i costi degli attacchi.

Perché ci rimettono gli utenti 

“A pagare le conseguenze delle violazioni alla security non sono più solo le aziende vittime di attacchi, ma sempre più i consumatori”, spiega Ibm.
Per far fronte a questi costi, il 60% delle organizzazioni ha infatti aumentato i prezzi dei prodotti e servizi. In pratica, sottolinea Ibm, “i cybercriminali stanno acquisendo un peso sempre maggiore nel definire le sorti dell’economia globale, contribuendo con la loro attività all’incremento dell’inflazione e alle interruzioni nelle catene di approvvigionamento”. 
In ogni caso, se in Italia il primo vettore di attacco è il phishing non è questo a causare i danni più consistenti. Molto più elevati i costi dovuti alla perdita accidentale di dati: in media poco meno di 5milioni di euro.

Ransomware: perché pagare non conviene

Molto ricorrenti (uno su dieci) sono i ransomware, attacchi che chiedono un riscatto. Pagare però non è una buona idea: le vittime che hanno scelto di pagare hanno risparmiato solo 610.000 dollari rispetto alle organizzazioni che non l’hanno fatto. Considerando poi che nel 2021 la richiesta media di pagamento è stata di 812.000 dollari, pagare non sembra essere conveniente né a livello operativo né economico. Vanno inoltre considerati altri danni collaterali. Si sta infatti accentuando quello che Ibm chiama ‘effetto persecutorio’: l’83% delle organizzazioni ha subito più di una violazione. Inoltre, il riscatto finanzia indirettamente attacchi futuri, mentre l’azienda potrebbe utilizzare la stessa cifra per migliorare la propria cybersicurezza. In altre parole, si finisce per sostenere l’avversario anziché rafforzare la propria difesa.

Aziende in ritardo

Solo il 40% è in possesso di un livello sufficientemente maturo di sistemi Zero Trust, con un approccio che presuppone autenticazione e verifiche, riferisce Agi. Eppure i risultati sono chiari, le aziende italiane che hanno sistemi maturi sono riuscite a dimezzare i costi dei data breach: 2,16 milioni di euro contro 4,86 milioni di quelle che non hanno ancora adottato contromisure. Il rapporto Ibm conferma quindi come la spesa in sicurezza informatica sia in realtà un investimento, in particolare quando rivolto ad automazione e Intelligenza artificiale. Le organizzazioni che hanno adottato in modo massiccio soluzioni di questo tipo hanno pagato mediamente 3 milioni di dollari in meno.

Smartphone in vacanza: come lo usano Millennials e GenZ?

Secondo una ricerca commissionata da Motorola, durante le vacanze lo smartphone si conferma strumento fondamentale non solo per gestire le attività, ma soprattutto per comunicare, produrre contenuti da condividere e gestire le relazioni sociali. Nelle giornate estive, 13 milioni di giovani lo utilizzano ogni giorno per mandare messaggi e 9 milioni per inviare vocali, principalmente su Whatsapp (95%), Instagram (71,1%), Facebook (55,7%) e Telegram (40,5%). Facebook si conferma un social popolato principalmente da over 30 mentre Instagram è meno influenzato dall’età, e la popolarità di TikTok è tre volte maggiore tra gli under 20 rispetto ai trentenni. 

L’informazione corre sui social

Anche durante l’estate, attraverso il telefono ci si tiene informati e si leggono news, principalmente su Instagram (60,6%). Al secondo posto, per i Millennials c’è Facebook (54,9%), mentre i GenZ si affidano anche ai magazine online (28,7%). In vacanza lo smartphone diventa poi ancora più importante per orientarsi utilizzando app di mappe (67,4%), e guardare video su piattaforme streaming (55,4%), soprattutto i più giovani (58,2%). Sempre più diffuso inoltre l’utilizzo del telefono per i pagamenti online (51,2%, 21-30enni 57,6%), utilizzando funzionalità specifiche di registrazione e condivisione di spese di gruppo (32,4%). Il gaming rimane un’abitudine di intrattenimento per un terzo degli intervistati, mentre i Millennials sono i più attivi nel prenotare e recensire ristoranti, hotel e luoghi visitati (44,8%). Non sfuggono alle video call il 30,3%, anche nei periodi out-of-office.

Parola d’ordine: condividere

GenZ e Millennials producono decine di milioni di fotografie e diversi milioni di selfie ogni giorno. Scattare foto è la terza attività quotidiana dopo l’utilizzo di chat (33,6%), e le foto sono il contenuto più condiviso (78%), seguite dai video (56%). A sorpresa le stories, prodotte ogni giorno dal 29,8%, pareggiano il numero di selfie (32,7%), il 31,7% crea Reels e il 15,5% video divertenti da diffondere su TikTok. I Millennials hanno più dimestichezza con i reel (46,2%), mentre fa i 21-30enni prevalgono le IG story (57,3%). La condivisione però è un’esigenza che accomuna i target, con una propensione della GenZ a utilizzare la chat per inviare foto (48,9%), video (43,6%), e postare selfie sui social (53%).

Quanti creator in vacanza!

Immagini e video vengono spesso riadattati prima di condividerli, riferisce Ansa. La GenZ ricorre maggiormente ai filtri per migliorare foto (32%) e selfie (31,6%), ed è più portata a editare/ritagliare video (19,9%). Andando avanti con l’età ci si dedica maggiormente a veri e propri interventi di ritaglio/montaggio (27,4%), a maggior ragione quando si vuole postare un reel. Nel caso dei post su TikTok, al 32,7% dei più giovani, che edita e modifica i contenuti, si affiancano i late Millennials (31-40 anni), che nel 40,7% dei casi modifica i propri video e nel 33,9% li monta/ritaglia. Quando si tratta di riadattare contenuti foto/video le giovani sono più a loro agio rispetto ai coetanei maschi, che si divertono a modificare video più per diletto che per necessità di condivisione.

A caccia di viaggi: il 42% degli utenti abbandona il sito dopo una sola pagina

Estate, tempo di vacanze e di viaggi. Ma come cercano le informazioni e le proposte gli aspiranti turisti? Sul web, ovviamente. Ma ci sono delle sorprese in merito a questa pratica. Il 42% dei clienti del settore viaggi, infatti, perde interesse dopo aver visualizzato una sola pagina: è quanto emerge dal nuovo Travel Digital Experience Benchmark Report di Contentsquare, leader nella digital experience analytics che ha esaminato punti di forza e criticità dei portali travel nell’intento di offrire alle aziende del settore indicazioni utili per l’ottimizzazione della digital experience a supporto della ripartenza del comparto. A livello globale, il report ha analizzato per un anno 328 siti web del settore travel rappresentativi di 25 nazioni, tra cui l’Italia, per un totale di oltre 2,7 miliardi di sessioni al fine di fornire ai brand del settore turismo e hospitality indicazioni utili in merito al comportamento degli utenti, ottimizzare così la customer digital experience e incrementare i ricavi.

Il tasso di conversione è alto

I dati in merito all’attività online di potenziali clienti nel settore del travel è particolarmente interessante, anche perchè questo gode di un elevato tasso di conversione medio pari al 3,9% a livello globale (1,65% quello relativo all’Italia) e superiore del 70% rispetto a quello registrato per altri comparti (pari al 2,3%), attestandosi come settore strategico su cui investire per migliorare l’esperienza digitale degli utenti.

Cosa accade in Italia 

Per quanto riguarda il caso specifico dell’Italia, a fronte di oltre 31 milioni di sessioni di navigazione web analizzate, l’analisi ha evidenziato che il 62,5% degli utenti predilige la navigazione mobile per una prima ricerca di informazioni in merito a viaggi e prenotazioni, ma il 35,5% sceglie di approfondire o finalizzare l’acquisto tramite desktop.
Un dato che invita a riflettere sull’importanza crescente che riveste la navigazione mobile nell’offrire agli utenti in cerca di informazioni preliminari un’esperienza digitale soddisfacente tale da favorire il ritorno sulla piattaforma e una spinta decisiva alla conversione tramite navigazione desktop.
Un altro elemento strategico per l’analisi della digital experience è rappresentato dal bounce rate dove anche in questo caso il comparto travel gode di un ottimo posizionamento attestandosi al 42% a livello globale (41,2% per l’Italia), secondo solo al settore energetico (38%).

E-commerce B2C: si evolve la catena del valore

Pandemia e instabilità geo-politica hanno favorito un ripensamento dei principali processi alla base della catena del valore dell’e-commerce B2c. Come conseguenza, tutti i principali merchant sono al lavoro sull’intera catena del valore (marketing, tecnologia, pagamenti, logistica, customer care) per migliorare i ricavi, ma soprattutto per contenere i costi con obiettivi di breve, medio e lungo termine.
Nel marketing, ad esempio, i merchant cercano una comunicazione mirata e personalizzata con i propri target di clienti. Da un lato utilizzano l’approccio cross mediale, che prevede l’utilizzo dei vari canali in modo integrato e strategico, e dall’altro la sperimentazione di nuovi formati pubblicitari, come Audio advertising o Connected TV. Emerge dall’ultima ricerca presentata dall’Osservatorio eCommerce B2c Netcomm del Politecnico di Milano.

Pagamenti: il 95% avviene con carte e altri digital wallet

Nel pagamento, dopo l’introduzione della SCA (Strong Customer Authentication), il focus è rivolto alla semplificazione del check-out, percepito come il momento più ‘critico’ dell’intera esperienza d’acquisto per l’elevato tasso di abbandono. Due le aree di lavoro per i merchant: guidare in maniera chiara e personalizzata il cliente in tutto il processo di pagamento e gestire le esenzioni autenticando il cliente prima dell’acquisto. Ma anche ampliare l’offerta verso nuovi strumenti di pagamento (Buy Now Pay Later).  Il peso dei pagamenti con carte e altri digital wallet è oggi pari a circa il 95%.

Logistica: revisione delle attività di magazzino e distribuzione

Nella logistica l’incremento dei volumi e l’aumento di complessità dovuto all’integrazione omnicanale e all’attenzione crescente sul livello di servizio, rendono necessaria la revisione delle attività di magazzino e distribuzione. Si investe quindi in tecnologia per migliorare l’infrastruttura logistica e ottimizzare i processi, e si studiano modalità complementari rispetto alla consegna a domicilio classica, attraverso l’integrazione con una rete capillare di punti di ritiro e parcel locker. Il tutto con uno sguardo alla sostenibilità ambientale in ottica di network e distribuzione last mile. Un’analisi dell’Osservatorio svolta su 50 top merchant di prodotto evidenzia come il 26% offra consegne entro lo stesso giorno, il 20% in una/due ore, e il 68% offre modalità alternative di consegna, come ritiro in negozio (48%), tramite pick-up point di terzi (32%), parcel locker (18%) e ritiro presso punti di proprietà (l’8%).

Customer care: seguire l’intero percorso di interazione

Nel customer care, la tecnologia diventa una valida alleata per seguire il consumatore durante l’intero percorso di interazione, dalla fase di pre-vendita (sistemi di personal shopping) alla fase di vendita (livestream shopping), e post-vendita (livechat). Non da ultimo, il customer care viene percepito come fonte di valore per il merchant. Grazie alla possibilità di raccogliere dati e insight dal consumatore, si possono migliorare non solo i processi di vendita, ma l’intera catena del valore fino all’ideazione e produzione del prodotto. Per quanto concerne i canali di relazione con il cliente, una ricerca sui top 100 merchant italiani mostra come l’email sia lo strumento più adottato (86%), seguito da telefono (77%), e social (68%).