Italia, il carrello della spesa green vale 8 miliardi di euro

Gli italiani sono sempre più sensibili al tema della sostenibilità, in tutte le loro azioni. E la spesa non fa eccezione: non sorprende infatti che per molti di noi l’attenzione green a ciò che si mette nel carrello sia diventata una priorità. Tanto che questo tipo di prodotti ha raggiunto un peso di circa 8 miliardi di euro l’anno. Ma non solo: i nostri connazionali ricercano anche sull’etichetta il richiamo alla protezione dell’ambiente, oggi presente su 21.213 prodotti di largo consumo. Lo rivela l’ultimo Osservatorio Immagino, realizzato da GS1 Italy in collaborazione con Nielsen, che indica i quattro grandi temi che catturano l’attenzione del consumatore: responsabilità sociale, rispetto degli animali, management sostenibile delle risorse e agricoltura e allevamento sostenibili.

Il “compostabile” domina le vendite green
A dominare le vendite di questa tipologia di referenze sono i richiami alla gestione sostenibile delle risorse sia nella fase produttiva che nel packaging, con un fatturato di 3,6 miliardi di euro, il 10,2% del valore complessivo del paniere verde. A crescere, nell’ordine, sono le confezioni e gli imballi con indicazione ‘compostabile’ (+55,9%), con ‘meno plastica’ (+21%) o ‘biodegradabile’, quelle che richiamano ‘CO2’ (+19,1%) e ‘riduzione impatto ambientale’ (+13,5%). In particolare, è interessante notare che, tra supermercati e ipermercati, i prodotti di largo consumo con confezioni compostabili hanno raggiunto un fatturato di 74 milioni di euro. Si tratta principalmente di precise tipologie di prodotti, quali  preparati per bevande calde (capsule), gelati, surgelati e acque minerali nel food, e prodotti usa e getta e igienico-sanitari nell’extra alimentare. Questo specifico filone evidenzia con forza quanto siano passati i messaggi di ecosostenibilità in tutti i settori della vita quotidiana.

No ad antibiotici e sì al 100% naturale

In questa particolare classifica green, riporta l’Osservatorio ripreso dall’Ansa, si collocano al secondo posto, con 2,4 miliardi di euro di giro d’affari, i prodotti che in etichetta rimandano ad un’agricoltura amica dell’ambiente e a modalità di allevamento sostenibili, come ‘senza antibiotici'(+62%), ‘ingredienti 100% naturali’ (+9,7%) e alla tracciabilità (+14,7%). Seguono al terzo posto i prodotti attenti alla responsabilità sociale, con 2,3 miliardi di euro di fatturato, dovuto soprattutto al consolidamento delle certificazioni Utz (+16,2%) e Fairtrade (+8,5%) in particolare in caffè, cacao e cioccolato. Segno meno, invece, per le vendite del paniere di prodotti ottenuti nel rispetto e salvaguardia del benessere animale (-0,3%); un calo imputabile alla riduzione dei prodotti con il claim ‘cruelty free’, non compensata dalla lieve crescita dei prodotti certificati ‘Friend of the sea’.

Covid, 1,7 milioni di microimprese a rischio fallimento

A causa della crisi economica provocata dall’emergenza sanitaria 4 microimprese su 10 rischiano la chiusura. I più vulnerabili? Bar, ristoranti, attività ricettive, piccolo commercio e le imprese del comparto della cultura e dell’intrattenimento. Si tratta di 1,7 milioni di attività “che dopo il lockdown non si sono più riprese, e ora hanno manifestato l’intenzione di chiudere definitivamente la saracinesca”, afferma il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo. “Con poca liquidità a disposizione e il crollo dei consumi delle famiglie i bilanci di queste micro attività si sono colorati di rosso – sottolinea Zabeo -. Una situazione ritenuta irreversibile che sta inducendo tanti piccoli imprenditori a gettare definitivamente la spugna”.

In dieci anni perse 180.000 aziende artigiane

“Gli effetti economici del Covid si sono sovrapposti a una situazione generale già profondamente deteriorata – puntualizza il segretario della Cgia, Renato Mason -. Tra il 2009 e il 2019 lo stock complessivo delle aziende artigiane presenti in Italia è sceso di quasi 180.000 unità. Circa il 60% della contrazione ha riguardato attività legate al comparto casa: edili, lattonieri, posatori, dipintori, elettricisti, idraulici, hanno vissuto anni difficili e molti sono stati costretti a cessare l’attività”.

La crisi dell’edilizia e la caduta verticale dei consumi, secondo Mason, sono stati letali. Se molte altre professioni artigiane, legate soprattutto al mondo del design, del web e della comunicazione, si stanno imponendo, “la drammatica crisi che vivremo nei prossimi mesi cancelleranno moltissime attività – continua Mason – incidendo negativamente anche sulla coesione sociale del Paese”. 

Si teme un aumento della disoccupazione

Lo studio ricorda che nel 2009, l’anno orribile dell’economia italiana, il Pil nazionale è sceso del 5,5%, mentre il tasso di disoccupazione nel giro di 2 anni è salito dal 6 al 12%. Con un Pil che nelle più rosee previsioni quest’anno dovrebbe diminuire di circa il 10%, quasi il doppio della contrazione registrata nel 2009, il pericolo che il numero dei disoccupati aumenti esponenzialmente è molto elevato, riporta Agi. La chiusura di molte piccole attività presenta ricadute sociali altrettanto negative. Quando un piccolo negozio o una bottega artigiana chiudono definitivamente “si perdono conoscenze e saper fare difficilmente recuperabili e la qualità della vita di quel quartiere peggiora”, aggiunge la Cgia.

Un paradosso: c’è difficoltà a reperire personale

Secondo la Cgia “bisogna fare una vera e propria rivoluzione per ridare dignità, valore sociale e un giusto riconoscimento economico a tutte quelle professioni dove il saper fare con le proprie mani costituisce una virtù aggiuntiva che rischiamo colpevolmente di perdere”.

A questo proposito, la Cgia cita un paradosso: mentre tante micro attività chiudono molti settori denunciano la difficoltà a reperire personale qualificato.

“Ci sono realtà – sostiene l’associazione – dove fino allo scorso mese di febbraio si faceva fatica ad assumere autisti di mezzi pesanti, conduttori di macchine a controllo numerico, tornitori, fresatori, verniciatori e battilamiera. Senza contare che nel mondo dell’edilizia è sempre più difficile reperire carpentieri, posatori e lattonieri”.

I surgelati entrano nella nuova dieta mediterranea

La dieta mediterranea festeggia i suoi 10 anni come patrimonio immateriale dell’Umanità dell’Unesco. La varietà degli alimenti, l’equilibrio e il gusto della dieta mediterranea sono stati riconosciuti dal Crea, il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agricola, come modello di uno stile di vita sano e sostenibile. Tuttavia, secondo l’European Journal of Public Health, solo 4 italiani su 10 la seguono, e consumano ancora troppo poco pesce e verdure di quanto consigliato dai nutrizionisti. Per invertire questo trend un aiuto arriva dai prodotti surgelati. Il Crea infatti sottolinea nelle sue linee guida come i surgelati rappresentino una corretta alternativa nutrizionale, ed entrino a far parte di diritto nella nuova dieta mediterranea.

La risposta a un consumo troppo basso di pesce e verdura

Nei prodotti surgelati sono presenti alimenti cardine della dieta mediterranea, come pesce, pasta, verdura e legumi, con il vantaggio di averli sempre a portata di mano. Se non i prodotti vegetali freschi non sono sempre disponibili in tutte le stagioni i surgelati, al contrario, permettono di seguire lo stile alimentare mediterraneo in maniera più costante, e senza differenze nutrizionali rispetto ai prodotti freschi. Tecniche come l’IQF (Individually Quick Frozen) e i velocissimi tempi di surgelazione consentono infatti a mantenere inalterati anche nutrienti, come la vitamina C o l’acido folico, soggetti a ridursi significativamente col passare del tempo.

Rilanciare la dieta mediterranea adattandola a nuove esigenze

“Nella seconda metà del secolo scorso la dieta mediterranea è stata per la prima volta studiata e battezzata da Ancel e Margaret Keys, che ne stabilirono i valori fondanti, come ad esempio la varietà e la valorizzazione di prodotti semplici”, commenta Giorgio Donegani, nutrizionista e tecnologo alimentare  La nuova dieta mediterranea rilancia i principi dell’alimentazione mediterranea, ma adattandoli alle esigenze dello stile di vita contemporaneo. Si tratta infatti di un modello alimentare che prevede soprattutto il giusto apporto calorico, e l’assunzione di tutti i nutrienti necessari al nostro organismo per mantenerlo in salute.

“Oggi si parla molto di nuova dieta mediterranea e i surgelati possono esserne tra i protagonisti – aggiunge Donegani -. Perfetti per ricette bilanciate, in linea con le indicazioni nutrizionali, fatti con materie prime dalla filiera corta e sostenibile. Insomma, l’ideale per lo stile di vita mediterraneo”.

Vegetali e pesce, gli alimenti da “frezeer” più consumati

Oggi quindi è necessario fare un passo avanti. E per rispettare i valori della dieta mediterranea, “e alimentarci correttamente stando al passo coi tempi, i surgelati sono essenziali”, aggiunge Donegani. A dimostrazione che i surgelati rappresentano uno degli alimenti più apprezzati dagli italiani, il Rapporto annuale Consumi di IIAS (Istituto Italiano Alimenti Surgelati) evidenzia come nel 2019 questi prodotti sono cresciuti in volume del +1,3% rispetto al 2018, per un consumo pro capite di 14,1 kg annui. E sono proprio i vegetali e il pesce, tipici della cucina mediterranea, i beni alimentari surgelati più consumati al dettaglio.

Le imprese italiane puntano sul digitale: il 77% investe in tecnologia

Saranno stati forse anche il lockdown e la ridotta mobilità causata dal coronavirus, fatto sta che le imprese italiane hanno iniziato una corsa verso il digitale che non può che proseguire. In base a quanto rivela un recentissimo report dell’Istat, circa tre quarti delle imprese con almeno dieci addetti sono attualmente impegnate in investimenti digitali (il 77,5%). Certo, per il nostro Paese si tratta ancora di “primi passi”: secondo il censimento permanente delle imprese dell’Istituto di Statistica, riferito al periodo 2016-2018, soltanto il 3,8% delle aziende ha già raggiunto la fase di ‘maturità’, caratterizzata da un utilizzo integrato delle tecnologie disponibili.

Ancora in numero contenuto, ma rilevanti per addetti e vale aggiunto
Le imprese digitalmente mature, pur essendo solo tre su cento contano però per il 16,8% di addetti e il 22,7% di valore aggiunto. La loro presenza è decisamente più elevata nel Nord-ovest (4,7%). A fare la differenza nella scelta o meno di adottare tecnologie digitali è soprattutto la dimensione: ha effettuato investimenti digitali il 73,2% delle imprese con 10-19 addetti e il 97,1% di quelle con oltre 500 addetti. Meno significative sono le differenze territoriali: si passa dal 73,3% nel Mezzogiorno al 79,6% nel Nord-est.

A livello settoriale emerge il ruolo trainante dei servizi: le telecomunicazioni (94,2%), la ricerca e sviluppo, l’informatica, le attività ausiliarie della finanza, l’editoria e le assicurazioni hanno percentuali di imprese che investono in tecnologie digitali superiori al 90%. Il primo settore manifatturiero per investimenti digitali è la farmaceutica (94,1%), seguita a distanza dalla chimica (86,6%). Tuttavia, segnala l’analisi, la maggior parte delle imprese utilizza ancora “un numero limitato di tecnologie, dando priorità agli investimenti infrastrutturali (soluzioni cloud, connettività in fibra ottica o in mobilità, software gestionali e, necessariamente, cyber-security) e lasciando eventualmente a una fase successiva l’adozione di tecnologie applicative.

Gli step della digitalizzazione italiana

In Italia, rivela ancora il censimento, la maggior parte delle imprese utilizza un numero limitato di tecnologie, dando priorità agli investimenti infrastrutturali (soluzioni cloud, connettività in fibra ottica o in mobilità, software gestionali e cyber-security) e lasciando eventualmente a una fase successiva l’adozione di tecnologie applicative. Sinora il grado di “digitalizzazione” delle imprese è stato misurato essenzialmente in termini di infrastrutturazione (accesso alla banda larga, numero di apparecchiature acquistate od utilizzate, ecc.) con il rischio che una rapida diffusione della capacità tecnica di utilizzo di strumenti digitali potesse dare l’impressione di una maturità digitale che, in realtà, esisteva solo potenzialmente. L’utilizzo di infrastrutture digitali giunge a saturazione già tra le imprese meno digitalizzate (quelle con investimenti “solo” in 4 o 5 tecnologie), e molto più lentamente si diffondono applicazioni più complesse e con maggiore impatto sui processi aziendali: appena il 16,6% delle imprese ha adottato almeno una tecnologia tra Internet delle cose, realtà aumentata o virtuale, analisi dei Big Data, automazione avanzata, simulazione e stampa 3D. Il processo di digitalizzazione delle imprese sembra distinto in due stadi o, in alcuni contesti più complessi, anche multistadio. “Appare infatti evidente la necessità di costruire in una prima fase le condizioni tecniche e culturali per avviare il processo di digitalizzazione che si completa, in una seconda fase, con l’adozione di soluzioni applicative più utili ed efficaci per aumentare efficienza e produttività” conclude il report.

Casa, scendono i prezzi, compravendite -18%

Nel 2020 le compravendite nel mercato immobiliare residenziale scenderanno del 18%, passando dalle 603mila transazioni del 2019 alle 494mila del 2020, La risalita è prevista a partire dalla seconda metà del 2021, che chiuderà a 499mila transazioni, l’1% in più rispetto al 2020. Si tratta delle previsioni dell’Osservatorio sul Mercato Immobiliare di Nomisma, che nel 2020 per i prezzi prevede una contrazione del -2,6% nel settore residenziale, e del -3,1% e -3,2% nei settori direzionale e commerciale. Il segno meno, secondo Nomisma, potrebbe però restare negli anni a venire, con cali per le abitazioni, del 2,3% nel 2021, e dell’1% nel 2022.

A Roma calo più marcato, Milano resiste

Roma è tra le città dove i cali saranno più marcati, con contrazioni previste del 4% nel 2020, del 3,3% nel 2021 e dell’1,9% nel 2022. Cali accentuati sono previsti anche a Catania, Bari e Roma, mentre Torino e Napoli mostrano performance particolarmente negative nel segmento non residenziale. Al contrario, Milano potrebbe essere la città con i cali più contenuti (-0,6% nel 2020, -0,4% nel 2021 e una crescita dello 0,8% nel 2021). Seguono Firenze, Padova e Bologna, alle quali si aggiungono Venezia e Palermo solo per gli immobili d’impresa.

Scenario negativo, ma non drammatico

Lo scenario è quindi negativo, ma non drammatico. Il secondo osservatorio 2020 di Nomisma mantiene sostanzialmente le previsioni formulate a marzo all’inizio del lockdown. I prezzi delle case sono in discesa, ma non in picchiata, nel triennio la perdita dei valori nelle grandi città si aggirerebbe sul 10%. E va rilevato che la diminuzione non sarà immediata, grazie alla “resilienza” delle proprietà. Il vero pericolo per il mercato è che nei potenziali acquirenti scatti l’attesa della deflazione: non compro oggi perché tra sei mesi pagherò meno. Vale per tutti i beni durevoli, ma per la casa a maggior ragione.

Comprare casa come investimento?

Nonostante rendimenti teorici molto interessanti se rapportati a quanto offre il mercato finanziario la richiesta di case da investimento almeno nel breve appare destinata a calare.
“Le erogazioni – sottolinea Luca Dondi, ad di Nomisma – sono destinate a diminuire perché le banche selezioneranno ancor più di oggi i clienti a seconda della loro potenzialità di sostenere il peso delle rate. Non ci aspettiamo una minor richiesta di mutui, ma un maggior numero di istruttorie con esito negativo”. Insomma, nei prossimi mesi le banche avranno un ruolo cruciale nell’andamento del mercato. Per quanto riguarda il non residenziale, Nomisma distingue tra mercato degli investimenti “core” (edifici acquistati da investitori istituzionali) che quest’anno soffrirà per la diminuzione di richieste da parte degli operatori stranieri, e mercato delle unità immobiliari non residenziali singole (negozi, studi professionali ecc) destinato a un forte calo di vendite e di valori.

Export italiano, tre anni per tornare ai valori 2019: il report dell’Ice

L’importante è saper guardare lontano, un po’ più in là rispetto a questo anno tanto difficile. E la massima vale ancora di più per l’economia, decisamente tartassata nel 2020, e a maggior ragione per l’export, che ha sofferto e soffre di numerose chiusure dovute all’emergenza. Insomma, ci vuole pazienza: ma l’export italiano tornerà ai livelli del 2019 nel 2022, rallentando così la crescita delle nostre esportazioni che erano brillanti dal 2010. La stima emerge dalla XXXIV edizione del Rapporto sul commercio estero realizzato dall’Agenzia Ice in collaborazione con Prometeia, Istat, Fondazione Masi, Università Bocconi e Politecnico di Milano, secondo cui la ripresa degli scambi mondiali nel 2021 sarà guidata dall’aggregato degli emergenti Asia, Cina in testa. Secondo il report, “nel 2020 le esportazioni italiane subiranno una brusca frenata e chiuderanno l’anno in flessione del 12%, a prezzi costanti, per poi crescere del 7,4% nel 2021 e del 5,2% nel 2022”.

Il 2019 era stata un’ottima annata

“I dati consuntivi confermano che nel 2019 l’export italiano godeva di un ottimo stato di salute. Aveva terminato l’anno con una crescita del 2,3% attestandosi a 476 miliardi e mantenuto la quota di mercato sul commercio mondiale stabile al 2,84%. Un risultato importante perché ottenuto in un periodo turbolento sui mercati mondiali, particolarmente per i Paesi europei, stretti nella disputa commerciale Usa-Cina, pressati dai dazi americani su molti beni esportati dall’Europa e confusi nell’incertezza su tempi e termini della Brexit” ha detto Carlo Ferro, presidente dell’Agenzia Ice. La crescita nel 2019 ha riguardato, in particolare, il settore farmaceutico (+25,6%), mentre i tassi di crescita maggiori delle nostre esportazioni si sono registrati con il Giappone (+19,7%) e la Svizzera (+16,6%). Germania (12,2% sull’export totale italiano), Francia (10,5%) e Usa (9,6%) rimangono comunque i primi nostri tre mercati di sbocco.

Un anno partito bene

“Anche i primi due mesi del 2020 sono stati positivi per l’export: +4,7% tendenziale, nonostante a febbraio fosse già evidente il rallentamento dei flussi con la Cina” ha aggiunto Ferro. L’Istat ha recentemente pubblicato le rilevazioni del periodo gennaio-maggio che vedono l’export in caduta tendenziale del 16%, mentre l’andamento congiunturale segna una crescita del 35% da aprile a maggio: “primo segno di ripresa delle attività”, ha osservato Ferro. A marzo e aprile, in particolare, i flussi commerciali con l’estero hanno registrato una brusca contrazione rispetto al mese di febbraio: export -45,8%, import -32,3%.

Azione cambinata

“Più che ragionare sui numeri è ora importante orientare l’azione combinando reazione e visione perché le sfide di oggi si giocano in un contesto globale diverso dal passato” aggiungendo poi che “digitale, innovazione e sostenibilità sono le parole chiave per rivolgersi alle nuove generazioni di consumatori globali” ha concluso Ferro.

Milano, Monza Brianza, Lodi: a luglio 21.200 nuove assunzioni

Il territorio di Milano, Monza Brianza e Lodi si conferma tra i più dinamici del panorama nazionale, anche per quanto riguarda le opportunità lavorative. Sono infatti circa 21.200 le assunzioni previste dalle imprese dell’area lombarda, della quali 18.210 a Milano, 2.410 a Monza Brianza e 590 a Lodi. Questi dati, nel loro complesso, rappresentano più della metà delle assunzioni in regione (40.500) e l’8% delle italiane (263.000). Certo, si tratta di andamenti ben diversi rispetto all’anno scorso: il calo rispetto allo stesso periodo del 2019 è del 48,6%, risentendo degli impatti dell’emergenza Covid-19. I numeri sono il frutto di un’elaborazione della Camera di commercio di Milano Monza Brianza Lodi su dati Sistema Informativo Excelsior, realizzato da Unioncamere in collaborazione con Anpal, sugli ingressi programmati dalle imprese per il mese di luglio 2020.

I profili più richiesti…

Ma cosa cercano le aziende del territorio? Sono previsti gli ingressi di oltre 3 mila addetti dei servizi di pulizia, di circa 2 mila sia per cuochi, camerieri e altre professioni dei servizi turistici sia per commessi e altro personale qualificato in negozi ed esercizi all’ingrosso, di 1.580 tecnici delle vendite, del marketing e della distribuzione commerciale e di 1.240 operai dell’edilizia e nella manutenzione degli edifici. Tra gli altri profili più ricercati anche gli specialisti e i tecnici informatici a Milano, il personale di segreteria e amministrativo a Monza Brianza e i conduttori di mezzi di trasporto a Lodi. Un ingresso su tre circa riguarderà un giovane sotto i 30 anni.

… e quelli più difficile da reperire

In questo scenario tutto sommato incoraggiante, non mancano delle criticità. In particolare, le imprese fanno fatica a reperire alcuni profili professionali. In particolare, “scarseggiano”gli specialisti in scienze informatiche, fisiche e chimiche a Milano e Monza Brianza, i tecnici delle vendite, del marketing e della distribuzione commerciale a Lodi.

Le entrate per provincia

Analizzando le previsioni di nuove assunzioni su base provinciale, a Milano queste saranno circa 18.210 entrate. Nel 29% dei casi le entrate previste saranno stabili, ossia con un contratto a tempo indeterminato o di apprendistato, ma in crescita fino al 71% i contratti a termine (a tempo determinato o altri contratti con durata predefinita); le entrate previste si concentreranno per l’85% nel settore dei servizi e per il 55% nelle imprese con 50 o più dipendenti. A Monza e Brianza le entrate programmate per luglio sono circa 2.410: nel 38% dei casi saranno stabili, ossia con un contratto a tempo indeterminato o di apprendistato, mentre nel 62% saranno a termine (a tempo determinato o altri contratti con durata predefinita); le entrate previste si concentreranno per il 73% nel settore dei servizi e per il 54% nelle imprese con meno di 50 dipendenti; il 18% sarà destinato a dirigenti, specialisti e tecnici, quota superiore alla media nazionale (15%). Infine a Lodi gli ingressi sono circa 590, nel 17% dei casi con un contratto a tempo indeterminato o di apprendistato, mentre nell’83% saranno a termine.

Milano, Monza Brianza e Lodi: economia rallentata, ma non si molla. Nate 12mila imprese

Milano non molla, e resiste agli effetti della crisi innescata dalla pandemia. E non solo: il capoluogo meneghino risponde con una certa vitalità. Infatti, pur in un periodo complicato come quello attuale, nel primo semestre del 2020 sono nate oltre 12mila imprese. Certo, la situazione non è facile e l’emergenza sanitaria ha determinato l’inversione del pluriennale trend di crescita dell’economia milanese. In particolare, le previsioni per la fine del 2020 del PIL indicano un calo pari al 7,1% per la Lombardia, al 7,7% per Milano, al 5,8% per Monza Brianza e al 5,4% per Lodi. I dati sono contenuti nel rapporto “Milano Produttiva”, realizzato dal Servizio Studi Statistica e Programmazione della Camera di commercio di Milano Monza Brianza Lodi. Il Rapporto, giunto alla sua 30esima edizione, contiene tutti i dati economici relativi a Milano, Monza Brianza e Lodi.

L’impatto del lockdown

L’impatto del coronavirus è immediatamente misurabile anche attraverso il dato relativo alle nuove iscrizioni al Registro Imprese, anche se non mancano segnali positivi: nonostante lockdown e pandemia sono 12.370 le imprese nate tra gennaio e giugno del 2020 a Milano, Monza Brianza e Lodi. Anche se il numero è incoraggiante, si tratta comunque di 5mila “nuove nate” in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. La variazione percentuale tra le nuove iscritte del primo semestre 2020 e le nuove iscritte del primo semestre 2019 si attesta a -28,6%. Il saldo a giugno è negativo, con le cancellazioni che superano le iscrizioni: -80 imprese. A Milano città però, ed è un trend che fa ben sperare, il saldo è – seppur di poco – positivo: +306 imprese.

Ordini cancellati e liquidità, i veri problema delle imprese del territorio

La prima conseguenza negativa della pandemia per l’industria manifatturiera è la cancellazione degli ordini dai clienti (39,1% a Lodi, 36,7% a Milano). Lo stop degli ordini è il primo problema anche per le imprese dei servizi di Milano e Monza. Circa un terzo delle imprese artigiane di Milano e Monza denuncia problemi di liquidità. Le chiusure forzate hanno colpito soprattutto il commercio (40% a Milano) che denuncia anche le maggiori difficoltà organizzative (19,4% a Monza). Oltre il 70% delle imprese dell’industria e dell’artigianato ha fatto ricorso ad ammortizzatori sociali, attorno al 60% per commercio e servizi. Poco meno del 10% ha ridotto l’organico; le imprese hanno preferito rinviare le assunzioni previste (21,6% delle imprese dei servizi di Milano) o in misura minore non rinnovare i contratti in essere.

L’andamento economico per settori

Per tutti i comparti economici c’è stato, e non è una sorpresa, un rallentamento. In particolare, si registra una significativa flessione della produzione industriale nei primi tre mesi dell’anno in Lombardia (-10,1%) e a Monza Brianza (-12%), meno marcato il calo che si registra a Milano (-7,5%) e a Lodi (-5,4%), con cadute più leggere rispetto alla media d’Italia  (-11,7%). Nel primo trimestre 2020 il fatturato del commercio registra invece in Lombardia (-7,2%), a Milano (-6,7%) e a Monza Brianza (-6,4%) una flessione più ampia rispetto all’Italia (-4,0), mentre le perdite sono più contenute a Lodi (-2,2%). Per i servizi il trimestre iniziale dell’anno ha mostrato una perdita del fatturato più marcata nei territori della Lombardia (-9,6%), rispetto al dato nazionale (-7,2%). Il dato di Milano (-8,8%) è lievemente inferiore al trend regionale (- 9,6%).

Discipline Stem le più richieste dalle aziende: ma mancano i giovani talenti

I talenti Stem (Science, Technology, Engineering, Mathematics) sono sempre più richiesti dalle aziende, che eppure non riescono a trovare i profili adeguati. I numeri: circa un’impresa su quattro – il 23% per la precisione – non è riuscita a reperire la figura Stem richiesta nel momento del bisogno. Lo rivela un recentissimo studio condotto dall’Osservatorio Fondazione Deloitte in collaborazione con Swg sulla formazione tecnico-scientifica in Italia. “Nonostante le aziende siano sempre più a caccia di profili Stem e siano anche disposte e remunerarli più della media, in Italia solamente 1 studente universitario su 4 è iscritto a queste facoltà e queste risorse non mostrano un incremento significativo negli anni”, ha commentato il presidente della Fondazione Deloitte, Paolo Gibello. In particolare, nel nostro paese si assiste a una mancanza importante di ingegneri della meccanica, dell’automazione e dell’informazione.

Poco appeal specie per le ragazze

Questo fenomeno è veramente penalizzante, anche perché le discipline Stem saranno sempre più richieste dalle aziende. Ma perché i ragazzi non si orientano verso queste materie? In base allo studio, si scopre che i giovani italiani sono ancora poco attratti dalle tematiche Stem e il 29% confessa di non sentirsi a proprio agio percependole troppo difficili per le proprie capacità. E queste discipline allontanano ancora di più le ragazze, creando un autentico gender gap. Le studentesse italiane si dichiarano meno interessate e meno sicure sulle materie tecnico-scientifiche dei loro coetanei, eppure le iscritte a facoltà Stem (circa un quarto del 27% degli universitari Stem) “riescono a laurearsi meglio e in meno tempo dei colleghi maschi”.

Le materia del futuro

“Le materie Stem sono il futuro: saranno, infatti, le discipline tecniche e scientifiche a plasmare il mondo di domani. Le imprese se ne sono accorte da anni, ma non è accaduto lo stesso tra i giovani italiani, che, nella maggioranza dei casi, continuano a puntare su una formazione non Stem” ha aggiunto Paolo Gibello. “Per questo, come Fondazione, abbiamo deciso di dare vita a un Osservatorio e di indagare le motivazioni delle scelte dei giovani. I risultati che emergono ci fanno capire che l’Italia ha tutto il potenziale per invertire il trend e porsi all’avanguardia del settore dell’istruzione e della ricerca anche in ambito Stem. È una grande sfida per tutto il sistema Paese e siamo orgogliosi di portare il nostro contributo. Come mostrato dallo studio emerge la necessità di intervenire nei tre principali momenti della vita di uno studente: partendo dalla fase di orientamento all’interno del panorama scolastico, passando per il vissuto durante gli anni della formazione, arrivando infine, all’ingresso del mondo del lavoro e alle prospettive per il futuro. Per questo riteniamo che debbano essere approfondite le dinamiche sottostanti le scelte dei giovani, le criticità del sistema scolastico e accademico, nonché del passaggio all’ambiente professionale, per tracciare chiare linee di indirizzo e di concreta progettualità”.

L’estate senza stranieri costa 12 miliardi al turismo

Gli effetti del blocco degli arrivi turistici dai Paesi extracomunitari per i divieti, la diffidenza dei cittadini provenienti dall’Unione europea e il permanere dell’isolamento fiduciario e della sorveglianza sanitaria costeranno cari all’industria turistica italiana. Secondo un’analisi Coldiretti/Ixè un’estate senza stranieri in vacanza costa 12 miliardi di euro al sistema turistico nazionale, per le mancate spese in alloggi, alimentazione, trasporti, divertimenti, e shopping.

Un vuoto che non viene colmato dalla svolta patriottica degli italiani

Lo scorso anno sono stati oltre 16 milioni i cittadini stranieri che hanno visitato il nostro Paese durante i mesi di luglio, agosto e settembre. Quest’anno “rischiano di essere praticamente azzerati dalle preoccupazioni e dai vincoli resi necessari per affrontate l’emergenza coronavirus”, ribadisce l’associazione.

“Si tratta di un vuoto pesante che non viene purtroppo compensato dalla svolta patriottica degli italiani, che per il 93% ha scelto di trascorrere le vacanze in Italia, la percentuale più elevata da almeno 10 anni”, continua la Coldiretti.

Secondo l’analisi, si evidenzia che sono 34 milioni i cittadini del Belpaese che hanno deciso di andare in ferie per almeno qualche giorno nell’estate 2020, con un calo del 13% rispetto allo scorso anno, riporta Adnkronos.

Alberghi in difficoltà per la scelta di alloggiare nelle case

“La novità di quest’estate – continua l’associazione – sta anche nel fatto che 1 italiano su 4 (25%) ha scelto una destinazione vicino casa, all’interno della propria regione di residenza, nonostante il via libera agli spostamenti su tutto il territorio nazionale e all’estero”.  Se la spiaggia resta la meta preferita, cresce il turismo di prossimità, “con la riscoperta dei piccoli borghi e dei centri minori delle campagne italiane – spiega Coldiretti – in alternativa alle destinazioni turistiche più battute, mentre crollano le presenze nelle città”.

La stragrande maggioranza degli italiani in viaggio però ha scelto di alloggiare in case di proprietà, di parenti e amici, o in affitto. Questo crea difficoltà agli alberghi, ma “segnali incoraggianti – riferisce ancora l’associazione – arrivano per i 24mila agriturismi”.

Viene a mancare anche l’effetto promozionale sul Made in Italy

Spesso situati in strutture familiari e in zone isolate della campagna, con un numero contenuto di posti letto e a tavola, e ampi spazi all’aperto, gli agriturismi “sono forse i luoghi dove è più facile garantire il rispetto delle misure di sicurezza”, precisa Coldiretti. Ma l’estate senza turisti stranieri impatta sull’intero indotto turistico, a partire dall’alimentazione, “dai gelati alle pizze, dai ristoranti ai bar, che in Italia – secondo la Coldiretti – pesa circa 1/3 dell’intero budget delle vacanze dei turisti per i pasti, ma anche per l’acquisto di souvenir”. Ai danni diretti si aggiungono quindi quelli indiretti, perché viene a mancare anche l’effetto promozionale sui prodotti Made in Italy.