Il lavoro dopo l’emergenza: tra worklife balance, ambiente piacevole e retribuzione adeguata

Un anno di Covid ha cambiato decisamente le condizioni di lavoro del 49% dei dipendenti italiani. Tra chi la propria occupazione l’ha persa, chi invece ha visto diminuire il proprio carico o altri che hanno dovuto fare un surplus di attività, per non parlare di chi è in cassa integrazione, gli ultimi, lunghi mesi sono stati difficili per numerose categorie. Nonostante i forti timori di perdere il posto di lavoro (una possibilità concreta per un terzo dei lavoratori italiani) e la crescente fedeltà alle aziende che hanno sostenuto i dipendenti durante la pandemia, ben il 21% dei dipendenti pianifica di cambiare occupazione entro i prossimi 6 anni. Ma quali sono i desideri di chi cerca una nuova occupazione? Soprattutto datori di lavoro capaci di comprendere l’esigenza di bilanciare vita privata e vita professionale, l’opportunità di lavorare da remoto (4 nostri connazionali su 10 vorrebbero che questa modalità proseguisse anche dopo la pandemia) e ovviamente anche uno stipendio adeguato. I dati sono il frutto dell’ultima ricerca del Randstad Employer Brand 2021, che ha decretato Ferrari come datore di lavoro più ambito in Italia, sulla base della più rappresentativa indagine globale sull’employer branding. Lo studio è stato condotto su oltre 190.000 persone in 34 Paesi del mondo e misura il livello di attrattività delle aziende come datori di lavoro percepita dall’opinione pubblica. In Italia sono state intervistate 6.581 persone di età compresa tra 18 e 65 anni.

I desideri degli italiani

Le risposte degli italiani sono eloquenti. I lavoratori di casa nostra affermano che i fattori più importanti attesi da un datore di lavoro sono il bilanciamento tra vita privata e professionale (indicato dall’66% degli intervistati) e l’atmosfera del lavoro piacevole (64%), seguiti da retribuzioni e benefits competitivi (61%), sicurezza del posto di lavoro (58%), visibilità del percorso di carriera (54%), solidità finanziaria dell’azienda (51%). Seguono poi alcune novità, come un ambiente di lavoro “covid safe” (45%), ma anche un contenuto di lavoro interessante (42%) e la possibilità di lavorare da remoto (39%). Ma queste priorità non coincidono con quelle dei datori di lavoro. Secondo l’opinione dei lavoratori, le aziende italiane invece puntano soprattutto su solidità finanziaria, buona reputazione, ambiente Covid safe e sicurezza del posto, dando poca rilevanza al worklife balance e al clima aziendale, elementi fondamentali per la scelta dell’azienda in cui lavorare.

Come si cerca un nuovo lavoro

Il canale principale per trovare un nuovo lavoro è il contatto personale, strada scelta da terzo degli italiani (32%), seguito dalle agenzie per il lavoro (23%) e LinkedIn (20%). Ci sono poi altri canali digitali come Infojobs.it (18%), Subito.it (17%), Google (17%), portali per il lavoro (17%), social media (13%) e siti web aziendali (12%).

Largo alle startup innovative, sono quelle che crescono di più

Nonostante i mesi oggettivamente difficili, le startup innovative non conoscono battute d’arresto, ma anzi sono sempre più numerose. Al 1° aprile 2021 in Italia se ne contano 12.561, il 3,4% di tutte le società di capitali di recente costituzione. Si tratta di uno dei dati emersi dalla nuova edizione del report di monitoraggio trimestrale dedicato ai trend demografici e alle performance economiche delle startup innovative, frutto della collaborazione tra MISE e InfoCamere, con il supporto del sistema delle Camere di Commercio. Il rapporto offre una vasta panoramica sul mondo delle startup, a quasi otto anni dall’introduzione della policy dedicata (d.l. 179/2012).

La Lombardia la Regione che ne accoglie di più

A livello di distribuzione geografica, è la Lombardia la Regione che ospita più startup innovative: oltre un quarto di tutte quelle italiane (26,9%). La sola provincia di Milano, con 2.363, rappresenta il 18,8% della popolazione, più di qualsiasi altra regione: superano quota mille il Lazio con 1.443 che rappresenta l’11,5%, (in gran parte localizzate a Roma, 1.286, 10,2% nazionale) la Campania, con 1.115, 8,9% del totale nazionale e anche il Veneto con 1.034, 8,2%. Tuttavia, la regione con la maggiore densità di imprese innovative è il Trentino-Alto Adige, dove circa il 5,7% di tutte le società costituite negli ultimi 5 anni è una startup.

Giovani e guidate da uomini: l’identikit delle nuove imprese

Tra le altre evidenze del rapporto, si scopre che negli ultimi mesi sono aumentati i soci di capitale dell’azienda, che ora sono oltre quota 60 milioni, con un aumento del 6,9% rispetto al trimestre precedente. Interessante è anche il fatto che oltre il 17% delle start up innovative è fondata da under 35, in prevalenza uomini. La quota femminile non è particolarmente presente in questo settore, e si ferma al 12,9% delle imprese femminili contro un 21,2% registrato nel complesso delle società di capitali.

Piccole, ma dinamiche

Sul fronte del fatturato, le startup innovative rientrano in gran parte nella categoria delle microimprese, con un valore della produzione medio di poco superiore a 182,6 mila euro. Questo fenomeno è però dovuto anche al fatto che le imprese “best-performer”, più consolidate per età e fatturato, tendono progressivamente a perdere lo status di startup innovativa. Tra gli altri indicatori, spiccano i valori positivi in termini di redditività (ROI, ROE) e valore aggiunto così come l’alto tasso di immobilizzazioni, circa sette volte in più rispetto alle aziende comparabili.

Smartphone, mai senza: lo usiamo 4,2 ore al giorno

Mai senza il nostro smartphone. Per chattare, informarsi e pure per giocare. Insomma, il cellulare è diventato a tutti gli effetti un’appendice del nostro corpo, che difficilmente lasciamo appoggiato sul tavolo o sulla scrivania. Non per niente, gli ultimi dati affermano che trascorriamo una media di 4,2 ore al giorno incollati ai nostri device: si tratta di un aumento di circa il 30% negli ultimi due anni. In particolare, hanno avuto un deciso incremento di utilizzo e di appeal le app di messaggistica e quelle di gaming. La fotografia di cosa rappresenti oggi lo smartphone è stata “scattata” dalla società di ricerche App Annie, sulla base di dati raccolti in 16 paesi (tra questi non c’è l’Italia, ma non dovrebbero esserci differenze significative) nel primo trimestre del 2021 e raffrontati con quelli del 2019 e 2020.

Ci sono Paesi in cui la media supera le 5 ore

Come dicevamo, 4,2 ore al giorno è la media di utilizzo. Questo significa che esistono Paesi i cui cittadini trascorrono molto più tempo attaccati ai loro device. E ‘ il caso, solo per citare qualche esempio, di Brasile, Corea del Sud e Indonesia, dove l’utilizzo quotidiano si attesta a 5 ore. Ma sono impressionanti anche gli aumenti registrati in diverse nazioni: in India, rispetto al primo trimestre del 2019, la crescita del tempo trascorso col cellulare in mano è stata di circa l’80%; in Russia e Turchia, rispettivamente il 50% e il 45%. Evidentemente, vogliamo tutti chiacchierare e giocare di più, e ci affidiamo allo smartphone per poterlo fare.

Le app preferite
La ricerca evidenzia anche quali sono le app che hanno avuto le migliori performance. In particolare, sono quelle di messaggistica a registrare i maggiori incrementi nel corso del primo trimestre 2021. Quelle che mettono a segno la crescita più significativa sono Signal e Telegram, forse preferite dagli utenti dopo le tante polemiche riguardo Whatsapp e la sua nuova normativa sulla privacy. Nello specifico, Germania, Francia e Regno Unito sono stati i Paesi europei in cui Signal si è piazzato in testa alla classifica delle cosiddette “Breakout Apps”, cioè quelle che hanno visto boom di download, sia su iOS sia su Android. E per quanto riguarda i giochi? La moda del momento nel comparto games è High Hells, un titolo molto gettonato su TikTok, che ha raggiunto la vetta delle “Breakout Games” di Usa e Regno Unito. In classifica anche ‘DOP 2: Delete One Part’ e ‘Phone Case DIY’. Ed è un vero e proprio caso ‘Crash Bandicoot: On the Run!’ lanciata il 25 marzo, che in soli quattro giorni ha raggiunto 21 milioni di download.

Pmi italiane, solo il 9% utilizza l’e-commerce. Ma il 35% ne sta valutando l’adozione entro il 2022

E-commerce, tutte lo conoscono, ancora poche però lo utilizzano: è la fotografia del commercio online da parte della piccole e medie aziende italiane, secondo il recente report Market Watch PMI realizzato da Banca Ifis. Andando direttamente ai numeri, si scopre che solo il 9% delle Pmi ha attivato o usa le piattaforme digitali per vendere i propri prodotti. A livello di settori merceologici, i più innovativi e dinamici sono l’agroalimentare (il 19% delle imprese sfrutta il commercio elettronico), la moda (16%), la chimica e la farmaceutica (16%). 

La pandemia spinge le vendite on line

Tra i dati emersi dall’indagine, non sorprende che nell’ultimo anno ci sia stata una ritrovata spinta verso il canale digitale: il 26% di chi lo utilizza lo ha adottato negli ultimi 12 mesi, individuandolo come uno strumento per poter continuare nella propria attività anche in tempi di restrizioni e chiusure. I numeri confermano comunque che l’e-commerce è una modalità recente: solo un’azienda su tre, infatti, lo utilizza da almeno cinque anni. Perché si sposta l’attività anche sulle piattaforme e-commerce, oltre alla stretta contingenza? Il 57% delle imprese coinvolte sostiene per la volontà di diversificare i canali di acquisto – specie per le aziende che operano nella moda, nella tecnologia e, per quanto riguarda il profilo geografico, nel Nord Est – mentre un altro 53% afferma di rispondere così a una richiesta del mercato.

Expertise interna o esterna?

Il 39% delle PMI che ha attivato un canale di vendita digitale ha investito sulla formazione di risorse già interne all’azienda per gestirlo, una su cinque ha invece assunto personale ad hoc. Mentre l’85% si è rivolta ad operatori specializzati per la gestione della logistica. Il 39% ha scelto poi di affiancare a un proprio applicativo anche un marketplace esterno: nel 64% dei casi si tratta di Amazon, nel 22% di Alibaba. I ricavi dell’e-commerce valgono oggi circa il 9% del fatturato complessivo di una Pmi, un dato che per 6 imprese su 10 è in aumento rispetto a quello generato nel 2019. Il 75% dei ricavi proviene dal mercato domestico e, elemento interessante, il 32% da clienti business, a conferma del fatto che il commercio digitale può essere strategico anche in ottica B2B.

Quali le criticità?

Le aziende che non hanno ancora adottato un canale on line hanno scelto questa strada perché non ritengono (nell’80% dei casi, quasi un plebiscito) questo tipo di vendita adatto ai loro prodotti. Ancora, due aziende su tre lamentano problematiche legate all’aggiornamento dei sistemi informativi e della dotazione tecnologica. Però, è questo è invece un dato positivo, il 35% delle Pmi italiane ha dichiarato di valutare l’apertura di una piattaforma di e-commerce entro i prossimi 12 mesi.

La felicità? Gli hobby come il giardinaggio e il bricolage

Durante i lunghi periodi di lockdown e restrizioni varie gli italiani si sono scoperti appassionati di bricolage, fai da te e soprattutto di giardinaggio. E da queste occupazioni ne hanno tratto benessere e, addirittura, felicità. Lo rivela un sondaggio condotto da YouGov per ManoMano, l’commerce dedicato alla casa e alle attività connesse, mettendo in luce che 1 persona su 2 ha dichiarato di aver praticato attività di giardinaggio o bricolage nell’ultimo anno per staccare la mente dai problemi quotidiani. Certo, non si tratta di passioni per i giovanissimi, e i dati lo confermano: i fan dei lavori in giardino o sul balcone sono soprattutto over 55 anni, perché permettono di impegnare il proprio tempo in maniera attiva. Felicità è data anche dalla soddisfazione provata nel vedere le proprie piante crescere e le creazioni home made prendere vita (48%).

Il gardening piace alle signore del Nord Italia

E’ altissima la percentuale di nostri connazionali che ha dichiarato di essersi cimentata in attività “verdi”, legata alle cura delle piante, ben il 79%. E questa passione cresce con l’aumentare dell’età: chi ha più di 55 anni si dedica più spesso al giardinaggio, soprattutto tra le donne (84% contro un 73% degli uomini) e nel Nord Italia. In particolare, il 51% degli intervistati ha dichiarato di aver coltivato delle piante aromatiche (come basilico e rosmarino) nell’ultimo anno, il 38% ha acquistato delle piante e fiori per arredare la casa e il 35% ha coltivato delle piante da esterno e giardino.

Le informazioni? Dagli amici e dal web

Per imparare sempre di più su questi temi, rivela ancora il sondaggio, i nuovi appassionati hanno scelto canali di informazione diversificati. Se il 48% si affida ai consigli del vivaio, il 38% ha preferito invece seguire il parere di amici e conoscenti. Ma c’è anche chi sceglie il digitale: il 36% degli italiani guarda i video e i tutorial su YouTube mentre il 27% si affida a blog e siti di settore.

Dalle piante al fai da te

Oltre al giardinaggio, i nostri connazionali si sono divertiti con il bricolage: 7 italiani su 10 (71%) hanno preferito attività di fai da te. Ad esempio, il 45% ha imparato ad aggiustare oggetti nell’ultimo anno, il 27% ha occupato il proprio tempo imbiancando la propria casa o decorando le stanze (23%). Il 13% degli uomini ha anche creato nuovi mobili per arredare la propria abitazione, mentre il 22% delle donne, soprattutto tra le più giovani, si è dedicato alla creazione di oggetti e accessori.

Post pandemia, l’87% delle imprese scommette sulla ripresa

C’è voglia di ripartire, e soprattutto di farlo con ottimismo: le imprese italiane scaldano i motori per il post pandemia. Lo rivela il quarto Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, realizzato con il contributo di Credem, Edison e Michelin, che mette in luce quanto le imprese “vedano rosa”, con l’87% che si dichiara ottimista, mentre i lavoratori sono più negativi.

Obiettivi, recupero del fatturato e quote di mercato

I principali obiettivi di questo ritrovato slancio sono principalmente tesi al recupero di fatturato e quote di mercato (76%) e verso la sfida della transizione digitale (36,2%). Questa positività è particolarmente interessante – tra le parole chiave espresse dai responsabili aziendali spiccano infatti voglia di fare (62,2%), speranza (33,7%) e coesione interna (30,1%) – soprattutto perché il 68,7% delle imprese ha registrato perdite di fatturato dopo il lockdown della scorsa primavera. Nonostante le difficoltà, per il 62,2% dei responsabili aziendali le proprie aziende se la stanno cavando bene.

I lavoratori più preoccupati

Diversa è invece la posizione dei lavoratori, che vedono il futuro con timore. Secondo quanto si legge nel rapporto, sono 9,4 milioni quelli del settore privato preoccupati sul destino della propria occupazione. Nei vari inquadramenti, dai dirigenti agli operai, fra quelli che hanno espresso preoccupazione, in particolare in 4,6 milioni hanno dichiarato di temere di andare incontro a una riduzione del reddito, 4,5 milioni prevedono di dover lavorare più di prima, 4,4 milioni hanno paura di perdere il posto e di ritrovarsi disoccupati, e 3,6 milioni di essere costretti a cambiare lavoro. I più pessimisti in assoluto sono gli operai: 3 su 4 affermano di essere spaventati dai prossimi mesi.

Lo smartworking? Porta diseguaglianze

Il rapporto non poteva non prendere in considerazione uno dei grandi protagonisti dell’ultimo anno, lo smartworking. Sempre in base ai dati raccolti, per 4 lavoratori su 10 il lavoro da remoto è foriero di nuove disuguaglianze e divisioni in azienda. In particolare, è un modo di lavorare che fa paura a chi non può permetterselo, mentre invece è apprezzato da chi lo può praticare. Secondo il report, il 31,6% dei lavoratori ha sperimentato il lavoro da remoto: il 51,5% dei dirigenti, il 34,3% degli impiegati e il 12,3% degli operai. E sono contrastanti i giudizi espressi. Il 52,4% di chi pratica il lavoro a distanza lo apprezza e vorrebbe che restasse anche in futuro, invece il 64,4% di chi lavora in presenza lo teme. Per il 37% dei ‘lavoratori agili’ il proprio lavoro è rimasto lo stesso di prima, per il 35,5% è peggiorato e per il 27,5% è migliorato.

Spesa, +45% di acquisti on line in un anno

A un anno dal primo lockdown, è interessante osservare come sono cambiate le abitudini di acquisto degli italiani. E una delle prime evidenze, anche come sensazione, è che la spesa on line sia diventata una pratica estremamente diffusa, molto più che nei mesi antecedenti l’emergenza sanitaria. A tirare le fila del fenomeno, e a tracciarne la portata, è un’indagine condotta da Youthquake, agenzia di data-driven marketing con sede a Milano e Londra, che ha analizzato come sono cambiati i comportamenti dei consumatori nella Grande distribuzione organizzata (Gdo). Il numero più eclatante è sicuramente la crescita del 45% della spesa online, sia che si tratti di consegna a casa sia di ritiro in negozio.

Crescono anche le spese “super”

Un altro elemento che stupisce è l’incremento delle “spesone”, ovvero la spesa super abbondante per fare scorta, che ha messo a segno un aumento intorno al 45%. Come spiegano gli analisti, questo è un “trend dovuto alle limitazioni imposte dalle misure di contenimento della pandemia e che attualmente continua a guidare anche l’acquisto fisico del cliente all’interno dei supermercati”. Le abitudini di acquisto non potevano che risultare influenzate anche dalle variazioni di reddito degli italiani. In molti casi l’indebolimento del potere di acquisto ha comportato per il 34% delle persone una maggior attenzione al prezzo dei singoli prodotti. Un dato che riporta sempre più in auge l’utilizzo di strategie di email marketing. A questo proposito, il 75% degli utenti preferisce un tipo di comunicazione con messaggi diretti come email ed sms, per rimanere sempre informato su promo, offerte e informazioni generali. E le donne, anche in questo caso, rappresentano il pubblico più attivo per quanto riguarda le ricerche.

Si cucina di più ma si spreca di meno

Il report mette infine in luce che il 49% degli italiani cucina di più rispetto al periodo pre pandemia e in generale il 35% delle persone ha dichiarato di mangiare di più, contro il 13% che ha affermato di aver consumato meno cibo. In cucina sono sperimentate nuove ricette, anche etniche, ma soprattutto pizza (52%) e dolci (50%). Una maggiore attenzione alla provenienza dei prodotti usati in cucina ha comportato anche una maggior cura da parte del consumatore verso un’alimentazione sana che si è tramutata in forte attenzione alla filiera dei prodotti alimentari e, più in generale, in un rinnovato interesse verso i prodotti bio e a km0. Infine, si manifesta una maggior sensibilità verso il tema dello spreco alimentare con le coppie (77%) che tendenzialmente sprecano meno cibo rispetto a chi vive da solo e alle famiglie più numerose.

Quanto costa avviare un’impresa in Italia? Circa 20mila euro e oltre 80 pratiche

Fare impresa in Italia non è né facile, né veloce, né tantomeno a buon mercato. Per dire le cose come stanno: per avviare un’attività nel nostro paese servono circa 20mila euro e ci possono volere fino a 86 adempimenti burocratici. Numeri che potrebbero scoraggiare anche il più entusiasta aspirante imprenditore. A fotografare le criticità del complicato e oneroso percorso per inaugurare una  propria attività ci ha pensato l’Osservatorio nazionale della Cna “Comune che vai, burocrazia che trovi”. Si tratta di una ricerca che misura l’impatto negativo di procedure lunghe, complesse e costose per avviare un’impresa e che rappresentano il principale freno allo sviluppo economico del Paese.

Le autoriparazioni le attività più “tartassate”

Il massimo della burocrazia, rivela l’Osservatorio della Cna, è riservato alle attività di autoriparazione: per aprire un’officina il complesso apparato della pubblica amministrazione italiana pretende 86 adempimenti che si traducono in quasi 19mila euro di costi da affrontare. La strada è pressoché uguale e altrettanto ardua per chi desidera avviare un’attività imprenditoriale nell’ambito della falegnameria: 78 adempimenti e 19.700 euro di spesa per le pratiche. Le gelaterie superano i bar con 73 adempimenti contro 71. Va un po’ meglio – ma neanche poi tanto – per gli acconciatori, che se la cavano con “solo” 65 pratiche da sbrigare presso 26 enti e un onere stimato di 17.500 euro.

“Lotta alla cattiva burocrazia”

Insomma, dai dati emerge che avvicinarsi all’imprenditorialità è per molti un miraggio e proprio per questa ragione la burocrazia andrebbe snellita e razionalizzata. Con l’obiettivo di rendere tali processi più agili, davanti alla Commissione parlamentare per la semplificazione la vicepresidente di Cna, Stefania Milo, ha ricordato che la Confederazione da tempo sollecita la “lotta contro la cattiva burocrazia”, sebbene qualche passo avanti da parte del legislatore ci sia effettivamente stato. Eppure “nonostante lo sforzo profuso dal Parlamento l’azione di ammodernamento appare ancora inadeguata”. Rimangono elementi di disomogeneità, soprattutto a causa “dell’intreccio dei molteplici centri di produzione normativa” che alimentano sovrapposizioni e ritardi per l’avvio dell’attività di impresa. La vicepresidente inoltre ha evidenziato l’esigenza di fare “un tagliando agli aggiustamenti introdotti sui principali strumenti amministrativi”. Tra questi, riporta Askanews, ci sono la conferenza dei servizi, l’Autorizzazione Unica Ambientale (Aua) che non ha centrato l’obiettivo di economicità amministrativa e con tempi di rilascio ancora troppo lunghi. Così come il Suap (Sportello Unico per le attività produttive) che sconta in molte località l’impossibilità dell’accesso per via telematica nonostante sia un obbligo di legge e che scardina il principio “Once only Suap”. Il Recovery Plan offre l’opportunità irripetibile di realizzare i necessari investimenti in digitalizzazione, innovazione e capitale umano per modernizzare la pubblica amministrazione. Cna guarda con interesse al rilancio dell’Agenda per la semplificazione 2020-2023, “strumento utile per rinnovare la logica ispiratrice delle modifiche più recenti”.

Milano, nuovi immobili: prezzi stabili e addirittura in salita

Il residenziale di Milano e del suo hinterland resiste ai colpi della pandemia. O, quantomeno, tengono i prezzi degli immobili di nuova costruzione, a testimoniare di quanto il capoluogo lombardo sia sempre una piazza estremamente ambita, anche in tempi difficili. L’indicazione emerge dalla “Rilevazione dei prezzi degli Immobili sulla piazza di Milano e Provincia”, realizzata dalla Camera di commercio di Milano Monza Brianza Lodi, in collaborazione con FIMAA Milano Lodi Monza e Brianza, Assimpredil ANCE Milano Lodi Monza e Brianza, Fiaip Lombardia, Anama Milano, ISIVI Milano e altre associazioni di categoria ed ordini professionali del settore. In particolare, gli addetti ai lavori segnalano una domanda sempre più selettiva e attenta alla qualità, anche in uno scenario reso più complesso dall’emergenza sanitaria ed economica.

Quanto costa comprare una casa nuova?

Comprare una casa nuova all’ombra della Madonnina costa in media 5.710 euro al metro quadrato, con una variazione positiva di +1,3% in un anno. La media in centro è di 10.228 euro al mq rispetto a 10.272 euro al mq del 2019, con una leggera flessione dello 0,4%. Nella zona nord, i prezzi passano da 4.268 euro al mq a 4.335 euro al mq, +1,6%. Nel quadrante meridionale si rileva la variazione più importante, con quotazioni che crescono a +5,5%, mentre nella zona ovest di Milano si passa da 5.159 a 5.177 euro al mq, con un incremento dello 0,3%. Cresce anche la zona est, da 4.575 a 4.704 euro al mq, con un incremento dei prezzi pari a +2,8%.

Anche l’hinterland con il segno più

L’andamento positivo non si ferma al perimetro di Milano, ma coinvolge anche i comuni dell’hinterland. Da Cologno Monzese a Bresso, da Cormano a Cusano Milanino, crescono soprattutto a nord e nel quadrante est i prezzi in alcuni centri nell’hinterland milanese, in un contesto che si mantiene comunque all’insegna della stabilità per gli appartamenti nuovi. L’attenzione degli operatori si concentra sulla qualità dei servizi e sulla disponibilità di zone verdi, in un mercato che comincia a riflettere il cambio di paradigma conseguente all’emergenza sanitaria.

Chi sale e chi scende

Anche se i quartieri più costosi si confermano, ovviamente, quelli del centro città, in proporzione mettono a segno incrementi dei prezzi anche zone come Greco, Corvetto, Solari/Napoli, piazza Udine, Forlanini/Mecenate, Musocco – Villapizzone e Lambrate. Mentre i prezzi di vendita delle case nuove tengono, o addirittura crescono, lo stesso non si può dire per gli affitti. Il mercato delle locazioni nelle diverse zone della città vede i prezzi massimi – quelli degli appartamenti pregiati nelle zone più ambite e centrali  – registrare la riduzione di valore più significativa. In centro le quotazioni calano a -11% per i monolocali e a -20% per i bilocali. Nella cerchia dei Bastioni si evidenziano valori in diminuzione di -4% per i monolocali e di -5% per i trilocali. Più stabile il mercato degli affitti in Circonvallazione e nella prima periferia.

Ristoranti e shopping: come sono cambiate le abitudini durante la pandemia

E’ inutile negare che il 2020 abbia comportato cambiamenti profondi alle abitudini di tutti noi, comprese quelle che riguardano gli acquisti. Eppure, non mancano delle sorprese che mettono in luce come il “local” sia una tendenza ormai radicata e quasi accentuata dall’emergenza. Lo rivela Ipsos che in un sondaggio globale ha esplorato il cambiamento delle abitudini di acquisto dei consumatori presso i piccoli negozi e ristoranti durante la pandemia. In linea generale, i consumatori di tutto il mondo riferiscono di mangiare meno frequentemente al ristorante (anche perché diversi paesi sono in lockdown) e fare più spesso acquisti online rispetto alla situazione pre-pandemica. Tuttavia, gli acquisti effettuati a livello locale – da agricoltori, produttori, imprese e ristoranti locali – risultano essere sostanzialmente invariati rispetto a prima della pandemia. A livello globale, il 63% degli intervistati afferma di frequentare i piccoli ristoranti o di proprietà locale meno frequentemente rispetto a prima della pandemia. Tra i 28 Paesi esaminati, il Giappone ha registrato il calo più lieve, con una percentuale pari al 44%, invece, l’Italia si colloca in una posizione intermedia con una percentuale del 60%.

La scelta si sposta sull’asporto e il delivery

Se andare direttamente al ristorante è un’abitudine che per ovvi motivi registra una battuta d’arresto, d’altro canto il 23% dei consumatori di tutto il mondo dichiara di mangiare più sovente cibo da asporto e/o consegnato direttamente a casa da piccoli ristoranti o di proprietà locale; il 45% afferma di usufruire della consegna a domicilio o dell’asporto con la stessa frequenza rispetto a prima della pandemia. In Italia, il 48% delle persone dichiara di consumare cibi da asporto o consegnati direttamente a casa con la stessa frequenza rispetto alla situazione pre-pandemica, in linea con la media globale.

Acquisti in piccoli negozi o online?

A livello globale, la maggior parte degli intervistati (54%) dichiara di non aver modificato la frequenza con cui effettua acquisti di persona presso piccole imprese o locali, e l’Italia non fa eccezione. Per quanto riguarda gli acquisti online, a livello globale meno della metà degli intervistati – il 43% – afferma di fare shopping online più spesso. Il Nord America guida l’aumento globale della frequenza degli acquisti online, con la metà dei consumatori che dichiara di fare acquisti online più sovente. L’Italia, anche in questo caso, si colloca in una posizione vicina alla media globale. Sono però i consumatori con un reddito più elevato (49%) quelli che affermano di aver scelto la modalità online con più frequenza rispetto a prima della pandemia: probabilmente chi ha più disponibilità ha anche più strumenti per comprare sul web.