Emergenza sanitaria, lo shopping per salute e benessere trasloca sul web

Tra prima e seconda ondata l’emergenza sanitaria dovuta al coronavirus non molla la presa. E, tra chiusure e zone rosse, le abitudini dei consumatori sono profondamente cambiate. A “vincere” tra i canali per gli acquisti è sicuramente il web, un’ancora di salvezza anche nei momenti più difficili della pandemia. Lo shopping on line, che riguarda pressoché tutti i comparti merceologici, riguarda pure – forse a maggior ragione, visti i tempi – il settore della salute e del benessere. In Italia, su una platea di circa 25 milioni di acquirenti online di prodotti fisici, 16,9 milioni di persone negli ultimi 12 mesi (+72%) hanno comprato un prodotto di questa tipologia. I dati relativi al settore Health&Pharma sono emersi dalla ricerca 2020 presentata durante “Netcomm Focus Digital Health&Pharma“, evento curato dal gruppo di lavoro Netcomm Digital Health&Pharma e condotta grazie anche al supporto di diverse aziende del comparto.

Un mercato che vale 1,2 miliardi di euro

L’analisi rivela che questo mercato vale 1,2 miliardi (con un incremento di +87% rispetto al 2019), con una spesa pro-capite media di circa 80 euro, dove gli acquirenti abituali (4,6 milioni di persone che hanno acquistano beni almeno 4 volte nell’arco temporale di un anno) contribuiscono al 40% del valore dell’e-commerce di settore. Ma quali sono le categorie merceologiche più gettonate all’interno del mondo salute e benessere? Risponde il report, specificando che le tre categorie che sviluppano il maggior valore di acquisti online sono: vitamine, integratori e potenziatori per lo sport (207 milioni di euro); i prodotti di ottica (occhiali da vista e lenti a contatto, 181 milioni di euro); le creme per la pelle e i muscoli (oltre 168 milioni di euro): su 100 euro spesi online in prodotti di Health & Pharma, 45 sono relativi ai prodotti di queste tre categorie.

Perché si compra la “salute” on line

Sono differenti e variegate anche le motivazioni che spingono gli utenti ad acquistare questa tipologia di prodotti attraverso canali e-commerce. In prima battuta si sceglie questa modalità per la convenienza economica (36,7%), seguita dalla comodità (18,1%) e dalla disponibilità di offerte speciali (16%). Infine, conta molto anche la questione sicurezza, dato che il 15,3% di coloro che hanno acquistato sul web prodotti Health&Pharma nell’ultimo anno ha scelto il canale web per non entrare in un punto di vendita fisico e scegliendo la consegna direttamente al proprio domicilio, dopo aver saldato i propri acquisti prevalentemente con PayPal o carte prepagate.

Le Pmi italiane volano con l’e-commerce: su Amazon venduti 60milioni di prodotto

In tempi difficili come quelli che stiamo attraversando a livello globale, un’importante ancora di salvezza pare essere l’e-commerce. Un’ulteriore conferma di quanto questo strumento sia strategico per le piccole e medie imprese italiane arriva dall’ultimo report di Amazon. L’analisi evidenzia che, da giugno 2019 a maggio 2020, i partner di vendita italiani hanno registrato vendite per una media di oltre 75.000 euro ciascuno, e hanno venduto in media più di 100 prodotti al minuto nei vari negozi online. Le oltre 14.000 piccole e medie imprese italiane che vendono su Amazon.it hanno registrato vendite all’estero per più di 500 milioni di euro. Di queste, circa 600 le realtà che hanno superato il milione di dollari in vendite. A oggi tali aziende hanno creato oltre 25.000 posti di lavoro.

Supportare le PMI obiettivo prioritario

“Supportare le piccole e medie imprese rappresenta la parte centrale di tutto quello che facciamo. Continueremo ad investire in logistica, strumenti, servizi, programmi e persone per sostenere le piccole e medie imprese nell’ottenere risultati sempre migliori”, commenta Francois Saugier, VP Seller Services di Amazon in Europa. “Nonostante il periodo difficile, i partner di vendita hanno continuato a crescere con Amazon. Quando i clienti acquistano nei nostri negozi, oltre il 50% dei prodotti ordinati è venduto da piccole imprese”.

“Le piccole e medie imprese rappresentano un pilastro fondamentale del tessuto sociale e imprenditoriale del nostro Paese, una risorsa che, attraverso l’e-commerce, può raggiungere e soddisfare una domanda ancora più ampia di clienti” – precisa Ilaria Zanelotti, Direttore Seller Services di Amazon in Italia. “Le realtà che avevano già adottato una strategia multicanale hanno trovato in Amazon e nell’e-commerce lo strumento per ampliare la base clienti e diversificare, per riuscire ad affrontare al meglio le sfide. Ne sono una testimonianza concreta le performance descritte nel Report che presentiamo oggi”.

Lombardia la regione che vende di più

A livello geografico, Lazio e Campania sono le due regioni con il maggior numero di Pmi che vendono online tramite Amazon: entrambe registrano oltre 2.000 piccole e medie imprese presenti sul canale online. Seguono Lazio (1500), Puglia e Veneto, queste due presenti entrambe con 1.000 aziende. Ma le Pmi tricolori non vendono solo entro i confini nazionali, ma anche in tutto il mondo attraverso i negozi Amazon raggiungendo un export totale di oltre 500 milioni di euro nel 2019. Le regioni con il più alto risultato di vendite all’estero sono Campania e Lombardia (entrambe totalizzano 75 milioni di euro), Lazio (50 milioni), Veneto e Piemonte (30 milioni di euro ciascuna).

Lavoro flessibile sempre: così lo vorrebbero 3 lavoratori su quattro

Se potessi… punterei sul lavoro flessibile. Ecco cosa hanno risposto in gran parte i lavoratori italiani alla domanda “Cosa faresti se fossi Ceo per un giorno”, inserita nella ricerca Workforce of the future, commissionato da Cisco a Censuswide e condotto su un campione di 10.095 intervistati in 12 paesi tra Europa, Medio Oriente e Russia, compresa l’Italia, coinvolgendo persone di aziende di ogni dimensione, dalle micro imprese alle grandi realtà. E così i nostri connazionali, dopo aver provato la necessaria esperienza del lavoro da remoto vissuta durante il lockdown, porterebbero questa modalità nella prassi aziendale. Tanto che il 74% degli intervistati ha dichiarato che per il 2021 sarebbe importante creare nell’azienda una politica stabile per il lavoro flessibile (74%) insieme dalla disponibilità di strumenti tecnologici per lavorare ovunque proprio come in ufficio (83%).

Come è cambiato il modo di vivere il lavoro

Negli ultimi mesi l’approccio al lavoro è cambiato radicalmente: basti pensare che prima del marzo scorso solo il 10% delle persone intervistate lavorava da casa stabilmente o in parte, e nel 48% delle loro aziende non era proprio permesso farlo. Ora, invece, l’87% dei lavoratori italiani vorrebbe scegliere se e come lavorare da casa o in ufficio con un mix di presenza e distanza, continuando a godere dei benefici sperimentati, nonostante tutto, in questi mesi. Gli intervistati parlano di maggiore autonomia (65%), di lavorare bene ‘in squadra’ anche da remoto grazie alle tecnologie disponibili (66%), dicono di essere stati più produttivi (64%) ma anche di avere sentito benefici legati al rapporto tra vita e lavoro come, ad esempio, essere riusciti a fare più esercizio fisico (61%).

Investimenti in tecnologie

Per raggiungere questo obiettivo, i lavoratori intervistati affermano che le aziende, nel 2021, dovrebbero in prima battuta investire in tecnologie. Per il 42% questi investimenti hi-tech servirebbero a essere più produttivi, per il 31% sarebbero necessari a rendere sicuri gli spazi di lavoro sotto il profilo sanitario, mentre per un 30% tutto ciò accrescerebbe lo sviluppo di competenze digitali. Per un 29% la tecnologia è importante per incrementare la sicurezza informatica. Un ulteriore dato emerso dallo studio è che le risposte date dai lavoratori di tutti i Paesi coinvolti nella survey – di Europa, Medio Oriente e Russia – hanno fornito risposte più o meno allineate. Come a dire, la scoperta della flessibilità del lavoro non è più una “rivoluzione”, ma un processo già ampiamente in atto in gran parte del mondo.

Imprenditoria, in Italia è under 35: giovane, ma meno di 5 anni fa

In Italia sono oltre mezzo milione le imprese con a capo una persona under 35. Un numero che conferma quanto l’imprenditoria nel nostro Paese sia giovane, anche se meno di 5 anni fa, quando questo dato era superiore di circa 80mila unità. Insomma, con l’8,7% di imprese under 35 sul totale complessivo, l’Italia ha ancora ampi margini di manovra per promuovere e incentivare l’imprenditoria giovanile. Si tratta di cifre e indicazioni emerse dall’ultima assemblea di Unioncamere, svoltasi a Roma: un’occasione per le Camere di Commercio di ribadire quanto sia importante mettere in campo azioni forti e decise sostenute dalle risorse del Next Generation Eu, capaci di invertire la rotta e restituire fiducia alle nuove generazioni. Negli ultimi anni, infatti, si è visto un calo deciso dell’imprenditoria giovanile specie in ambiti “tradizionali” come il commercio, le costruzioni e anche, un po’ a sorpresa, la ristorazione con quasi 5mila imprese in meno.

Exploit per il settore dell’agricoltura

Dai dati di Unioncamere emerge anche un altro aspetto molto interessante: i giovani – che sempre più nell’aprire un’impresa cercano una certa solidità strutturale – si sono orientati nuovamente verso il comparto dell’agricoltura. Oltre a questo settore, le imprese di under 35 si focalizzano pure sul mondo dell’ospitalità e non trascurano i settori innovativi. L’analisi delle Camere di Commercio evidenzia che, tra i più giovani che si sono messi in proprio, 6 su 10 hanno puntato su settori tradizionali, come il commercio, dove si contano 140mila imprese di under 35 (26,5% del totale), le costruzioni (63mila, pari al 12%), il turismo (quasi 58mila, circa l’11%) e l’agricoltura (55mila, 10,4%). Nella manifattura operano 29mila imprese giovanili (il 5,5% del totale), mentre negli altri servizi si contano oltre 33mila imprese (6,3%).

Start up ed economia verde conquistano i giovani

Nel comparto delle start up innovative quasi una impresa su 5 (il 18%, per poco meno di 2.100 unità su un totale di oltre 11mila unità) è a prevalenza giovanile. Lo stesso dicasi dell’economia “verde”, che vede tanti giovani imprenditori investire in tecnologie, prodotti e servizi a minor impatto ambientale (tra le imprese giovanili manifatturiere, il 47% ha investito nella greeneconomy nel passato triennio, contro il 23% delle altre imprese). Un altro 10% del mondo giovanile che fa impresa è anche attivo nei settori più innovativi e ad elevato utilizzo di tecnologie, a partire dai servizi di informazione e comunicazione, dalle attività professionali, scientifiche e tecniche e dal noleggio, agenzie di viaggio e servizi alle imprese.

Food&beverage, un settore in crescita sui mercati esteri

Quello agroalimentare si conferma non solo uno dei più “sani”, ma anche uno dei più dinamici settori del nostro Paese. L’ottima tenuta di questo specifico comparto, anche in questi mesi decisamente complicati, si deve soprattutto all’export che, per alcuni mercati, aumenta addirittura a due cifre. Sono i numeri emersi per il primo semestre di quest’anno, diffusi dagli esperti di Tuttofood, la kermesse di settore in scena a fieramilano dal 17 al 20 maggio.

Oltre 22 miliardi di export
In base a un’elaborazione su dati Istat Coeweb relativi ai settori dell’agricoltura e dei prodotti alimentari, si scopre che nel primo semestre del 2020 l’export F&B italiano è stato pari a oltre 22 miliardi di euro, in crescita del 3,5% rispetto allo stesso periodo del 2019. In testa – con un valore di 13,7 miliardi e un incremento del +5,4% in un anno – si posizionano le esportazioni di prodotti alimentari, seguite da quelle dell’agricoltura con 3 miliardi e una crescita del +1,8%.

Quali prodotti piacciano di più oltreconfine?

Sul fronte della classifica dei prodotti Made in Italy che più piacciono all’estero, sul gradino più alto del podio si piazzano i prodotti da forno con 2,3 miliardi di euro di valore e una crescita a doppia cifra, ben +15,6%. Seguono frutta e ortaggi lavorati e conservati, che esportano per 1,9 miliardi registrando un incremento del +6%, e i prodotti delle industrie lattiero-casearie con 1,8 miliardi, +0,8%.

In Oriente amano il Made in Italy

Tra i dati emersi dal report, c’è anche quello dei principali paesi di destinazione dell’agroalimentare tricolore. Sono degli autentici fan del cibo italiano gli orientali, rivelano i numeri: tra i i maggiori mercati di destinazione registrano la crescita maggiore il Giappone con +16,9%, la Cina, +13,7% e l’Oceania a +8%. Bene anche mercati storici come Germania +6,7%, Svizzera a +5,7%, Stati Uniti e Francia, entrambi con un +4,2%. Altro dato interessante, le esportazioni si dirigono in percentuale abbastanza equilibrata verso l’Europa e i mercati extraeuropei, segno che negli ultimi anni le aziende Made in Italy si sono focalizzate sullo sviluppo dei mercati emergenti. Nel primo semestre di quest’anno l’export verso la UE, senza il Regno Unito, ha sfiorato i 12,5 miliardi di euro, mentre quello verso il resto del mondo oltre 9,6 miliardi.
Emilia Romagna, Veneto e Lombardia: dalle tre regioni le specialità più esportate

L’Emilia Romagna si conferma la Regione che più ha contribuito all’export, con oltre 4 miliardi, mentre quasi a parti merito in seconda pozione si collocano Veneto e Lombardia, che hanno esportato per 3,43 e 3,42 miliardi rispettivamente. Segue poi il Piemonte con circa 3 miliardi. Con un po’ di stacco arrivano infine la Campania, con quasi 2 miliardi di euro, la Toscana (1,26) e il Trentino-Alto Adige (1,16).

Global Happiness 2020, il 63% della popolazione mondiale è “felice”

Anche in un anno davvero complicato come lo è questo 2020, il 63% dei cittadini del mondo si dichiara “felice”. Proprio così: come rivela il sondaggio Global Happiness 2020 di Ipsos, il livello di felicità è rimasto più o meno invariato rispetto al 2019, calando di un solo punto percentuale. Eppure, questo singolare indice che misura la felicità in alcuni paesi è addirittura aumentato: sale in sei (tra i quali Cina, Russia, Malesia e Argentina), mentre cala in dodici nazioni. Il paese che guida la classifica è la Cina, dove il 93% si dichiara felice (in aumento di 11 punti rispetto allo scorso anno), seguita dai Paesi Bassi con l’87% e dall’Arabia Saudita con l’80%. Canada e Australia, che si piazzavano nelle prime posizioni l’anno scorso, sono invece in caduta: il Canada con il 78% scende al quarto posto e l’Australia con il 77% scende al sesto posto.E l’Italia? Bene ma non benissimo: l’Italia è al 16esimo posto, anche se l’indice è aumentato (e questa è sì una sorpresa) dal 57 al 62%. Nonostante i dati siano in tenuta rispetto un anno fa, è invece impressionante notare come è calato il sentiment relativo alla felicità in 10 anni: tra il 2011 e il 2020, la percentuale di coloro che si dichiarano felici è diminuita di 14 punti a livello globale.

Cosa rende felici?

Ma su quali parametri si basa questo sondaggio? Lo studio ha preso in esame, a livello globale, 29 potenziali fonti di felicità; di queste, le prime cinque con le relative percentuali sono: salute/benessere fisico (55%); rapporto con il partner (49%); figli (49%); sentire che la propria vita abbia senso e significato (48%); qualità di vita (45%). Rispetto all’indagine pre-pandemia condotta lo scorso anno, le fonti di felicità che hanno acquisito maggiore importanza a livello internazionale riguardano le relazioni, la salute e la sicurezza. D’altra parte, il tempo libero e il denaro hanno ceduto terreno come fattori di felicità un po’ in tutto il mondo. Sorprendentemente, la situazione finanziaria personale non è uno dei primi driver di felicità.

L’Italia un po’ diversa dagli altri Paesi

Anche se lo studio mette in luce che le maggiori fonti di felicità tendono ad essere universali, l’Italia si discosta leggermente dalla media globale. Per i nostri connazionali, infatti, le principali fonti di felicità risiedono in: la sensazione di controllo della propria vita, salute e benessere fisico, sicurezza e protezione personale, la sensazione che la propria vita abbia un senso e, a pari merito, hobby e condizioni di vita. 

Social media: essere se stessi aiuta il benessere psicologico

Sii te stesso, anche sui social. Sembra essere questo il consiglio più prezioso per bilanciare in maniera corretta vita reale e vita virtuale, all’insegna della Life Balance. Insomma, la verità – anche sui social – ripaga in benessere a livello psicologico: lo afferma un nuovissimo studio pubblicato sulla rivista Nature Communications. “Con questa ricerca volevamo scoprire come gli utenti dei social media decidano se presentarsi in modo autentico, idealizzato o socialmente desiderabile. E abbiamo rilevato che gli individui più autentici sui social media sono quelli che vantano un più alto livello di benessere soggettivo” ha detto Erica Bailey della Columbia University e autore principale dello studio. L’analisi è interessante anche per i numeri: si stima che quasi 4 persone su 5 usino un qualche social e che i tre quarti di questi lo facciano su base quotidiana. Ovviamente, l’impatto di questa abitudine sulla psiche individuale può essere rilevante.

Analizzati oltre 10.000 profili

Il team di scienziati ha perciò analizzato i profili Facebook di 10.560 utenti, monitorando anche attività come mettere like e aggiornamenti di stato, al fine di valutare i tratti della loro personalità. Più nel dettaglio, gli autori hanno studiato l’autenticità delle informazioni postate su Facebook dal campione esaminato, confrontando il quadro psicologico emerso dall’analisi di questa attività con i risultati ai test standard di personalità cui ciascun volontario è stato sottoposto. I partecipanti hanno anche compilato un questionario ad hoc per misurare il proprio benessere psichico, chiamato test ‘Life Satisfaction’. Ebbene è emerso che quanto più l’attività su Facebook era in linea coi risultati ai test di personalità, maggiore era il benessere psichico riscontrato con il test Life Satisfaction. Nella seconda parte dello studio, poi, gli esperti hanno chiesto a una piccola parte del campione di scrivere post autentici sul social ed hanno visto che questa attività si associa a un aumento del benessere psichico riportato da ciascuno.

Auto-idealizzarsi non fa bene

Naturalmente, tutti tendiamo a mostrare sui social solo gli aspetti migliori delle nostre vite, delle nostre passioni e anche del nostro aspetto. Ma questo “comportamento auto-idealizzante a volte può portare a conflitti psicologici interni, provocando forti reazioni emotive e persino ansia o depressione” spiegano i ricercatori. Addirittura, alcune fra le persone coinvolte nel test ha sostenuto che la cura sia la chiusura degli account social. Ma i ricercatori sono di un altro avviso:  si può benissimo rimanere “psicologicamente sani ed emotivamente stabili anche rimanendo sui social, a condizione di essere più autentici”.

Tra mondo tech e agroalimentare, quali sono le professioni di oggi (e di domani)

Inutile negare che la pandemia abbia sconvolto un po’ tutte le dinamiche di vita a cui eravamo abituati. E le modalità con cui si cerca un lavoro non fanno certo eccezione. Nello scenario post Covid-19, è quindi interessante  – e sicuramente utile – capire dove ci stiamo dirigendo, come sarà il lavoro del futuro e soprattutto quali saranno le professioni più richieste del 2021. Qualche indicazione preziosa arriva dal Sistema Informativo Excelsior, una delle fonti più utilizzate per seguire le dinamiche relative al settore lavorativo. Realizzato da Unioncamere e Anpal, consiste nella realizzazione di indagini mensili sulle imprese, con un particolare focus sui profili professionali e i livelli di istruzione richiesti.

Piccoli segnali di ripresa

Secondo l’ultima analisi, pubblicata nel mese di settembre 2020, sono previste in queste settimane 310 mila assunzioni, con una riduzione del 28,7% rispetto ai dati di settembre 2019. Si tratta di una piccola ripresa, seppur lieve, che comunque fa ben sperare per il futuro: emerge in particolare che i principali incrementi saranno nel settore agroalimentare e in quello delle costruzioni. Ma il dato più interessante – e anche beneaugurante –  è questo: le piccole e medie imprese reagiranno meglio in questa fase, contenendo le perdite occupazionali. Le previsioni sono oltre la media nazionale per le regioni del sud, isole e nord ovest; andrà peggio, invece, per quelle del centro e del nord est.

Le professioni più gettonate

Il documento riporta un elenco delle professioni più richieste per settembre, e ha preso in esame anche altre statistiche rilevanti, come quelle diffuse da LinkedIn. Tra i lavori più ricercati, c’è il developer: questa è in assoluto la prima tra le professioni più richieste del 2021 e, probabilmente, manterrà tale primato ancora a lungo. Tutti gli studi di settore concordano nel definire lo sviluppatore come una delle figure professionali più ricercate, a maggior ragione ora che il web ha acquisito un ruolo strategico essenziale. In seconda battuta, ci sono i professionisti che operano nella comunicazione online: ruoli richiesti già prima dell’emergenza sanitaria, ma oggi ancora di più. Al terzo posto, sebbene in molti ritengano che le nuove  tecnologie possano sostituire la presenza umana anche nelle HR, sono proprio le risorse umane tra le figure più ricercate, proprio in “carne e ossa”. Chiudono la classifica delle professioni maggiormente richieste gli specialisti nell’Agroalimentare, settore che ha ottime previsioni di sviluppo anche per gli anni a venire, e gli esperti di Cybersecurity, ruoli emergenti ma sempre più strategici.

Videogame, più gettonati dei film in streaming e Tv

Sportivi sì, ma davanti a uno schermo. Gli italiani sono dei veri fan degli sport competitivi, specie quelli che si possono praticare… sui videogiochi. E il lockdown, che ha bloccato per tanto tempo le attività fisiche tradizionali, non ha fatto altro che aumentare tale tendenza. Che i nostri connazionali siano dei patiti di queste attività è confermato dal nuovo rapporto presentato da Iidea, l’associazione nazionale di categoria, in collaborazione con Nielsen: nel 2019 gli appassionati in Italia sono aumentati del 20% attestandosi su 1,4 milioni. Non solo: nei primi mesi del 2020 la crescita è stata ancora maggiore.  

Raddoppiato il tempo per i giochi

Come si legge nel report, da gennaio a giugno gli appassionati hanno quasi raddoppiato il tempo dedicato ai videogiochi per Pc (+48%) e console (+42%), più di quanto sia successo con tv e film in streaming (+45%). Il 38% degli “avid fan”, appassionati che seguono i videogiochi competitivi almeno una volta al giorno, ha guardato esports in sostituzione degli sport tradizionali. “Questa forma di intrattenimento – ha spiegato il presidente di Iidea, Marco Saletta – ha ricevuto un’ulteriore spinta alla crescita come fenomeno di massa grazie all’attenzione ad esso dedicata nel corso dei primi 6 mesi del 2020 da parte di media più generalisti e canali televisivi che in passato erano orientati alla sola trasmissione di eventi sportivi più tradizionali”. I dati diffusi dall’associazione – estrapolati da un’indagine condotta su un campione di 1.500 persone tra i 16 e i 40 anni – evidenziano la popolarità degli esports, un fenomeno trasversale che appassiona in egual misura uomini (51%) e donne (49%) con un livello di istruzione medio-alto e un’età media di 29 anni.

Più giocatori al Sud e nelle Isole

Un’altra informazione singolare che scaturisce dal report è legata alle differenze geografiche: si scopre infatti che ben il 36% dei fan di queste attività si concentra nelle regioni del Sud e nelle Isole. E per quanto riguarda il tempo trascorso con questa passione? In media i fan dedicano 6,5 ore alla settimana alla fruizione di eventi esports, contro le 5 del 2018 (+35%). Il numero di fan che spendono oltre cinque ore la settimana a guardare eventi esports, inoltre, è aumentato del 18% rispetto alla rilevazione del 2019. Oltre agli esports, musica e cinema sono i loro principali interessi.

PC e smartphone i dispositivi preferiti

I motivi che portano gli appassionati a seguire il mondo delle competizioni videoludiche sono l’intrattenimento, il voler migliorare le proprie abilità in un determinato videogioco o guardare un videogame prima di acquistarlo. I generi più seguiti sono gli sportivi e gli sparatutto, seguiti dai battle royale (Fortnite su tutti). I dispositivi più utilizzati sono personal computer (62%) e smartphone (47%), seguiti dalle app per Smart TV, tra cui YouTube (31%).

Bonus mobilità, è ufficiale: il 3 novembre debutta la piattaforma per i rimborsi

Finalmente c’è una data certa: con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 5 settembre scorso, diventa di fatto operativo il Programma sperimentale buono mobilità – anno 2020” previsto dal Governo. La piattaforma web per il bonus sarà infatti accessibile dal 3 novembre 2020. E’ questo l’ultimo atto del provvedimento che consente di ottenere un contributo fino al 60% della spesa sostenuta e, comunque, in misura non superiore a 500 euro, sull’acquisto di biciclette, anche a pedalata assistita, e veicoli per la mobilità personale a propulsione prevalentemente elettrica quali monopattini, hoverboard e segway, o per l’utilizzo dei servizi di sharing mobility esclusi quelli mediante autovetture.

Cosa prevede il decreto

Il decreto prevede che chi ha acquistato un mezzo o un servizio di sharing mobility dal 4 maggio 2020, o lo acquisterà fino al 31 dicembre 2020, potrà richiedere il bonus attraverso l’annunciata applicazione web, accessibile, previa autenticazione tramite il Sistema Pubblico di Identità Digitale (SPID), sia direttamente sia dal sito del Ministero dell’ambiente. Per richiedere il bonus sull’acquisto dei mezzi ci si potrà registrare sull’applicazione del Programma a partire da 60 giorni dalla pubblicazione del decreto sulla Gazzetta Ufficiale (e quindi dal 3 novembre).

Cosa possono fare i venditori

In una nota diffusa dal Ministero dell’Ambiente si legge: “I soggetti che erogano servizi di mobilità condivisa a uso individuale escluso quelli mediante autovetture, le imprese e gli esercizi  commerciali che vendono biciclette, anche a pedalata assistita, e veicoli per la mobilità personale a propulsione prevalentemente elettrica si potranno accreditare  sull’applicazione web a partire dal quarantacinquesimo giorno (e cioè dal 19 ottobre)”. Esiste quindi uno scarto di 15 giorni, fra il 45° e il 60° dalla pubblicazione del decreto per dar tempo ai negozianti e ai gestori dei servizi di sharing mobility per accreditarsi e poter poi avvalersi dei rimborsi erogati dal Ministero dell’Ambiente a fronte della presentazione del bonus.

Come avviene il rimborso

Le persone che hanno acquistato il mezzo fino al giorno prima dall’attivazione dell’applicazione riceveranno il rimborso con un bonifico, quelle che ancora non l’hanno fatto riceveranno un bonus che andrà consegnato al negoziante che a sua volta sarà rimborsato dal Ministero dell’Ambiente tramite l’applicazione web. L’erogazione dei bonus avverrà nei limiti delle risorse disponibili che, rispetto allo stanziamento iniziale, sono state implementate e portate a 210 milioni di euro. Rimangono invece validi i requisiti per ottenerlo: è destinato ai soli residenti nei capoluoghi di regione, nelle città metropolitane, nei capoluoghi di provincia e nei comuni con popolazione superiore a 50.000 abitanti.